“Le Fate Ignoranti” non è il primo film dal quale viene tratta una serie tv, ma è un tipo di adattamento/riduzione/spin-off, chiamiamolo come vogliamo, che si attua da tempo: pensiamo a “M.A.S.H.”, pensiamo a “Saranno famosi”, con la serie che diventa un prodotto di maggiore successo rispetto al film, e ad altri esempi anche nella serialità italiana. Ma certo, l’attenzione nei confronti di questa nuova produzione era alta: sia perchè si tratta della prima serie original italiana realizzata da Disney +, sia perchè il film rappresentò, per l’epoca, ovvero vent’anni fa, qualcosa di davvero innovativo, sia per le tematiche, sia per lo stile, quello che in conferenza stampa – citando le parole di Mina – è stato definito il “tocco” di Ferzan Ozpetek. Quello stile, appunto, quel modo unico di raccontare persone e storie, di costruire, soprattutto, un’atmosfera che porta lo spettatore dentro le storie stesse. Ecco, se l’idea che sta alla base della scrittura de “Le Fate Ignoranti – La serie” (dal 13 aprile su Disney+) può essere considerata interessante (cambiare il punto di vista, ovvero non quello della protagonista ma di tutti, e soprattutto dare spazio a quei personaggi che nel film non venivano sviluppati), alla realizzazione sembra mancare proprio quell’atmosfera, quel modo di delineare i personaggi, di fare entrare il pubblico, pian piano, dentro i sentimenti, le emozioni – forti, dirompenti – del racconto. Sin dai primi momenti della serie, tutto è descritto nei dettagli, situazioni e soprattutto sentimenti; tutto è detto e, dunque, prevale il didascalico, l’espressione manifesta. E manca l’attesa, che crea poi lo svelamento della storia, l’ingresso della protagonista in un mondo – quella famiglia che il marito ha costruito insieme a un altro uomo e al gruppo di amici e vicini – che apparentemente non le appartiene e di cui poi entra a far parte. Manca la costruzione di queste emozioni, molto dichiarate più che sentite o rese dalla metafora artistica: come se il passaggio dal film alla serie necessitasse di una narrazione più piana, più espressa, e da qui, forse, la scelta di cambiare toni. Pur se l’andamento, lo stile sembra essere, soprattutto visivamente, vicino a quello cinematografico; e anche nella scansione degli episodi, il ritmo sembra meno seriale, specie nella cesura tra un episodio e l’altro, nella costruzione di un cliffhanger che crei attesa. Attesa e tensione, crescendo emotivo che – almeno nei primi due episodi – non hanno quella sottolineatura che connotava il film e che in una serie andrebbero ancor più rafforzati.
Il punto di forza, ancora una volta – e non potrebbe essere altrimenti per un grande direttore di attori come Ferzan Ozpetek – , è il cast: a partire da un Eduardo Scarpetta che, dopo il successo in “Carosello Carosone” e in “Qui rido io”, in questa serie trova la sua consacrazione di attore di grandissimo talento, che modula con padronanza assoluta, interpretando emozioni e sentimenti con minimi e precisissimi mutamenti di toni, di sguardi, insomma con tutta la sapienza di una recitazione di alto livello. E poi Cristiana Capotondi, che tratteggia una Antonia volutamente differente da quella di Margherita Buy, ma altrettanto padrona dei toni recitativi; Luca Argentero ormai nel pieno della sua maturità artistica, che con Ozpetek trova sempre modo di esprimersi al meglio. Senza contare Carla Signoris, che dà quel tocco di ironia e, nello stesso tempo, di profondità al personaggio della madre di Antonia; e , naturalmente, Selma Yilmaz, l’unica a ricoprire lo stesso ruolo del film. Ma, nonostante il grande cast (che comprende anche Anna Ferzetti, Ambra Angiolini, Burak Deniz, Paola Minaccioni, Filippo Scicchitano, Edoardo Purgatori, Edoardo Siravo e, in due camei, Elena Sofia Ricci e Milena Vukotic), sembra non ricrearsi quella magia, quel clima familiare, quella sensazione di grande complicità del gruppo di amici, che si svelava nella tavolata ormai diventata simbolo del cinema di Ozpetek, come metafora di unione, amicizia e, appunto, famiglia. Non è detto che, però, questa atmosfera non si delinei maggiormente negli episodi successivi e non ci sia un crescendo emotivo, così come uno spazio ulteriore degli altri personaggi, secondo quanto già dichiarato in conferenza stampa. Perchè è vero che il pubblico internazionale della piattaforma magari non conosce il film, ma quel tipo di narrazione, cadenzata attraverso i ritmi della serialità, forse avrebbe funzionato anche in questo caso. Benchè le interpretazioni conferiscano, comunque, quel qualcosa in più che può conquistare lo spettatore, insieme ad una coralità cui, in ogni caso, il pubblico delle serie è meno abituato.
Una menzione a parte merita, infine, la musica: le scelte musicali, nei film di Ozpetek, non sono mai casuali, ma hanno un ruolo fondamentale, sono un elemento chiave – insieme, ad esempio, al cibo e alle location, in questo caso una Roma ancora più avvolgente e presente. Canzoni, ma anche arie operistiche, a rimarcare un’altra scelta interessante, quella del coinvolgimento del mondo teatrale, dell’incontro tra teatro e cinema, creato attraverso il lavoro del personaggio di Scarpetta, quello di scenografo teatrale, appunto. Musica che non è mai un aspetto a sé stante, ma protagonista del racconto: e, in questa direzione, non poteva mancare anche stavolta un brano di Mina, l’inedito “Buttare l’amore”, a suggellare un incontro felice tra arti.