Non c’è dubbio che negli ultimi anni la fiction delle tv generaliste, in primis di Raiuno, abbia mutato pelle o anche abbia premuto l’acceleratore dell’innovazione, cogliendo al meglio (grazie soprattutto all’azione del direttore di Raifiction, Tinny Andreatta) gli spunti che già in qualche caso si intravedevano e che erano nati da penne interessanti, come quella di Ivan Cotroneo, autore di quel “Tutti pazzi per amore” sempre citato come esempio di nuovo linguaggio tv.
E, dunque, negli ultimi tempi, si evidenziano il successo di “Romanzo famigliare”, una serie che ha una marcia in più, che innova nel linguaggio, inteso proprio come linguaggio filmico, al di là delle tematiche (che, comunque, nella riproposizione di una grande saga familiare, pur se moderna, si rifanno – come lo stesso titolo evoca e come evidenziato anche dalla regista – al feuilleton). Francesca Archibugi non ha creato sei episodi classici di una serie tv, ma ha realizzato un film, ha dato alla fiction un taglio – anche e soprattutto di sceneggiatura – cinematografico, uscendo dalle classiche formule delle puntate e dei cliffhanger (che pur ci sono, ma misurati). E’ questo il passo in avanti di questa serie, essere avanti rispetto ad una costruzione più classica, più schematica.
Così come fuori dagli schemi è sicuramente “La linea verticale”, altra serie di cui si parla molto: il tema della malattia trattato con la vena surreale che Mattia Torre ci aveva già fatto conoscere con Boris. Una produzione importante per la nostra tv, sorretta anche da grandi interpretazioni, su tutte quella di uno straordinario Valerio Mastandrea. Tuttavia, proprio a partire da questa serie si può analizzare una tendenza, che non parte esattamente da questi due esempi, ma che già si può notare da qualche anno: si sarebbe potuta ipotizzare una fiction come “La linea verticale” se prima Raiuno non avesse proposto “Braccialetti rossi”? E’ ovvio, lo stile è differente: eppure, anche qui si parlava di malattia con un tono diverso, unendo realtà e sorriso e – cosa non da poco – parlando ai giovani.
E ancora, prima di questi esempi, nella scorsa stagione la Rai ha lanciato “Rocco Schiavone”, innovativo – anche in questo caso – non tanto per l’essere il personaggio sopra le righe, quanto proprio nello stile, elemento sempre troppo sottovalutato nelle analisi: è la scrittura ad essere nuova, è la regia di Michele Soavi (non a caso, regista anche di un’altra bellissima proposta Rai, quella del film tv dedicato a Rocco Chinnici, che propone un racconto personale e familiare sorretto da montaggi in flashback, che sovrappongono scene e inquadrature dalle quali sembrano scaturire i sentimenti dei protagonisti), è l’interpretazione di Marco Giallini a rendere la serie innovativa. Ma gli esempi degli ultimi tempi sono tanti: per tornare a Ivan Cotroneo, possiamo parlare di “E’ arrivata la felicità” (tra poco su Raiuno la seconda stagione); “L’ispettore Coliandro” che, anche se nato qualche anno fa, ha saputo rinnovarsi e conquistare nuovo pubblico, pur restando fedele alla sua linea, già molto moderna e nuova; “La Mafia uccide solo d’estate”, “La porta rossa” e tanti altri.
Innovazione, dunque, che con la direzione di Tinny Andreatta ha avuto un incremento sostanziale e indubbiamente visibile, oltre che premiato dagli ascolti.
P.S. Una sottolineatura, tuttavia, andrebbe comunque fatta (che non riguarda, naturalmente, l’obiettivo cambio di passo operato dalla Rai negli ultimi 2-3 anni, ma il modo in cui ci si accosta, a livello, critico all’argomento “fiction”): spesso si sente parlare di innovazione rispetto ad una serialità che si ferma a venti anni fa o che cita la tradizione di Don Matteo (che pure, nell’ultima stagione, sta dando segnali, piccoli ma fondamentali, di cambiamento). E questo è sintomatico del fatto che chi ne parla forse ha visto poche fiction nel frattempo: perchè, se è vero che le serie tv delle generaliste si sono spesso basate su schemi predefiniti e hanno rischiato poco, si dimentica che i tanto citati temi moderni che avvicinano al mondo contemporaneo sono stati trattati per la prima volta, in molti casi, da fiction andate in onda proprio sulle generaliste. Qualche esempio? La prima serie a parlare apertamente di adozione da parte di coppie gay è stata “Commesse” (alla fine degli anni ’90); a parlare di coming out, di famiglie allargate, di violenza sulle donne e di tanto altro è stata una delle serie considerate più tradizionali (almeno dopo le prime stagioni, ben viste dalla critica), ovvero “Un medico in famiglia”; il primo esempio di lunga serialità di genere poliziesco, “La squadra”, prima serie ad usare nuove tecnologie e forme innovative di ripresa, è stata anche la prima a trattare argomenti non facili, come la corruzione e il tradimento, nonchè temi legati alla criminalità quasi da istant movie (ma poi in tanti se ne sono dimenticati). L’elenco potrebbe continuare: ma non in una difesa del prodotto fiction in quanto tale (e senza negare che ci siano stati periodi più recenti, dopo questi esempi, in cui ci si è un po’ “seduti” su determinati successi, reiterando formule più tradizionali), quanto per un’analisi oggettiva di qualcosa che, per essere criticato – come si dice sempre quando qualcuno avanza una critica nei confronti di prodotti oggi osannati- dovrebbe essere conosciuto. E soprattutto perchè sappiamo realizzare racconti secondo una nostra forma, un nostro linguaggio, con la forza artistica che ci è propria e che ha fatto scuola in tutto il mondo, senza per forza dover guardare a modelli esteri che spesso non ci appartengono.
Detto questo, oggi, in questi ultimi anni, le serie tv delle generaliste hanno fatto indubbiamente un passo in avanti. Ed il pubblico premia.