Certo, il finale ha spiazzato un po’ (tanto), essendo lontano da quello originale, non riflettendone – nonostante le dichiarazioni di cast e regista – il senso, ovvero quello del perdono e della salvezza (che viene sì dall’amore, sentimento che il protagonista però non riscopre grazie a Mercedes): tuttavia, la serie tv “Il conte di Montecristo”, diretta da Bille August e andata in onda su Raiuno, è stata indubbiamente un grande successo ed ha offerto una visione differente e più aderente al romanzo rispetto a quella cinematografica francese (diretta da Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte), in Italia mai arrivata in sala, bensì direttamente in tv, come miniserie in due puntate su Canale 5. Quest’ultima, infatti, cambia molto dell’originale (contrariamente a quanto mi è capitato di leggere in diversi post e anche recensioni), puntando sì su un ritmo ed una messinscena più contemporanea, ma inseguendo il pubblico con innovazioni anche stilistiche poco convincenti (tra tutte, una scena che sembra riecheggiare gli effetti speciali alla “Mission Impossible” più che un romanzo dell’800). Stupisce un po’, per questo, l’accoglienza incredibile avuta in patria, dove ha anche ricevuto un numero record di nomination ai César. Il film francese punta tutto sull’hype che crea (ma, appunto, su presupposti differenti) e soprattutto sull’interprete principale, Pierre Niney, che sottolinea molto le emozioni e la forza scenica del personaggio.
Il protagonista della serie tv, invece, è interpretato da Sam Claflin costruendo un Dantès apparentemente freddo, ma creando in realtà una sorta di maschera che si rompe con un repentino cambiamento di sguardo, quasi impercettibile agli occhi dei suoi antagonisti, ma che dà la misura dei cambiamenti dell’animo del Conte. Accanto a Claflin, un cast di grande richiamo e livello, che costituisce uno degli elementi del successo di pubblico: e se forse Michele Riondino è sottoutilizzato rispetto al suo talento, all’Abate Faria di Jeremy Irons viene dato il giusto peso che uno dei personaggi chiave del romanzo merita (al contrario del film, dove – pur interpretato dal sempre ottimo Pierfrancesco Favino – il personaggio non ha lo stesso impatto); e soprattutto, ancora una volta sorprende la versatilità di Lino Guanciale, la sua capacità di calarsi in un ruolo sfaccettato come quello di Vampa, allontanandosi da precedenti interpretazioni, come si può cogliere semplicemente ascoltando la sua voce (tra l’altro, tra i pochi abili a doppiare se stessi, cosa non facile come potrebbe sembrare), elemento che sa utilizzare per mutare e connotare il personaggio cui dà vita.
Punti di forza della serie, dicevamo, insieme ad una struttura – dalla scrittura alle scene – tradizionale, che potrebbe anche apparire senza particolari scatti o crescendo, ma che, nonostante appunto una resa tradizionale anche per ritmo narrativo, ha conquistato oltre 5 milioni di spettatori: un risultato che potrebbe stupire, soprattutto proprio per l’attenzione e l’apprezzamento di un ritmo più lento rispetto a quello contemporaneo; tuttavia, come spiegato da qualcuno molto più autorevole della sottoscritta, ovvero il professor Giorgio SImonelli, è la conferma che ciò che il pubblico segue è la storia, la capacità di un racconto di attrarre, il modo in cui conquista e porta a volerne seguire il suo sviluppo. Che è poi qualcosa di insito nella struttura del feuilleton, la forma con cui nacque il romanzo di Dumas. L’importante, a mio parere, è capire che è ancora possibile riappropriarci anche in tv di ritmi diversi di visione e approfondimento (piaccia o meno lo stile utilizzato in questo caso).
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Paola Abenavoli
Paola Abenavoli, giornalista, critica teatrale e cinematografica, studiosa di storia della tv. Autrice dei saggi “Un set a sud”, “Sud, si gira” (titolo anche del primo sito su sud e audiovisivo, da lei creato), e “Terre promosse”. Già componente del Consiglio superiore dello Spettacolo, fa parte di Associazione nazionale critici di teatro, Rete critica e Sindacato nazionale giornalisti cinematografici.