La frase più utilizzata negli ultimi 10 anni, a proposito delle serie tv è “sono i nuovi film”, oppure “hanno sostituito i film”. In realtà, le serie hanno – o dovrebbero mantenere – una struttura, delle caratteristiche che sono proprie del genere, non assimilabili a quelle di un film (dal cliffhanger, alla divisione in puntate, che è insita nella serialità e che non può essere ridotta ad una suddivisione di un film lunghissimo, ma serve a creare una struttura narrativa differente, oltre alla fidelizzazione dello spettatore). Quello che avvicina serialità e cinematografia può essere, semmai, lo stile, visivo o di approfondimento narrativo: un livello che, in questo senso, si è sicuramente alzato molto, anche grazie all’autorialità nella firma delle serie (che pur ha caratterizzato spesso i decenni passati, sia in Italia che all’estero, con serie o miniserie firmate da grandi registi).
Due generi, dunque, che difficilmente trovano una sintesi, proprio per queste diverse connotazioni: eppure, l’eccezione che conferma la regola arriva con una produzione che, grazie ad un grande tocco autorale come quello di Alfonso Cuarón, porta lo spettatore, fin dalle prima scene, ad immergersi in un racconto di impronta cinematografica, ma che sa mantenere intatte tutte le caratteristiche della serialità. Anzi, sa esaltarle.
Parliamo di “Disclaimer”, la serie in sette episodi presentata durante l’ultima Mostra del Cinema di Venezia e che sarà disponibile su Apple Tv+ dall’11 ottobre con i primi due episodi e poi gli altri ogni venerdì fino al 15 novembre.
Un thriller psicologico, una tensione che non è solo nella storia (una famosa giornalista, Catherine Ravenscroft, che solitamente rivela le malefatte e le trasgressioni degli altri, riceve un romanzo da un autore sconosciuto e si rende conto di essere la protagonista di una storia che mette a nudo i suoi segreti più oscuri e minaccia di distruggere la sua famiglia), ma nella pressoché perfetta struttura narrativa, sia a livello visivo che drammaturgico. Sin dalle prime scene, come dicevamo: i primi piani intensi dei protagonisti, le voci fuori campo che raccontano diverse prospettive, la scelta dei flashback in dissolvenza cinematografica d’altri tempi, che si intrecciano perfettamente, sia a livello visivo che della storia, e poi – ancora una volta in Cuarón – l’uso della luce. Tutto concorre a ricreare uno stile preciso, sicuramente cinematografico, ma che rispetta le cesure degli episodi, con un crescendo, con cliffhangher e creazione di attesa, nonchè di suddivisione delle parti, ovvero dei personaggi che riportano la propria versione, la propria verità, i propri ricordi.

Ma il percorso autorale di Cuarón non si sarebbe potuto compiere senza l’apporto fondamentale degli interpreti: magistrali Cate Blanchett e Kevin Kline, in un succedersi di primi piani, di cambi di registro, di sguardi. E se della prima è ormai noto, l’immenso talento di Kevin Kline merita invece di essere sottolineato ulteriormente: ancora una volta l’attore mostra la propria versatilità, calandosi in un ruolo difficile, di grande drammaticità, ma che, come peraltro anche quello di Blanchett, gioca sui non detti, su maschere e verità. Senza contare gli altri protagonisti, come un quasi irriconoscibile Sacha Baron Cohen, nel ruolo del marito della protagonista.
Un raro esempio, dunque, di grande autorialità cinematografica che sposa perfettamente i canoni della serialità, creando un unicum.