Guardare “Che ci faccio qui” e commuoversi: non potrebbe essere altrimenti, con i programmi di Domenico Iannacone. Accade ancora una volta, ad esempio, davanti alla seconda puntata dedicata al suo viaggio in Calabria: e, ancora una volta, la capacità di Iannacone, rara in tv, è quella di guardare la complessità, di raccontarla, definirla; non osservare il bene dopo il dolore, non un racconto in compartimenti stagni, ma vedere la speranza anche in quel dolore, anche dove sembra (e a volte non sembra soltanto) che tutto resti uguale. Come quando fa entrare lo spettatore dentro le vite di coloro che vengono considerati ultimi, dentro le loro storie, unendo sapientemente la cronaca (non dimentichiamo che l’essere cronista è alla base del lavoro giornalistico e consente di affrontare qualunque argomento, con la precisione e la cura di chi davvero sa fare questo mestiere) e l’empatia, o meglio l’umanità. E anche da questo tipo di sguardo, oltre che dal racconto di ciò che i volontari riescono a realizzare, nasce la speranza. Se, poi, dopo tutto questo, arriva anche l’arte o l’innovazione che nasce all’interno dell’università, la tenacia, la forza di saper cogliere la bellezza e la cultura che ne scaturisce, e far sì che in questa terra dove si è nati si possa restare e creare il futuro (non solo il proprio, ma quello di tutti), allora davvero non può che nascere la commozione. Senza retorica, senza quasi accorgersene: e non solo perchè si parla della tua terra. Forse perchè scopri che è possibile: o meglio, ne hai la conferma, lo sai, come sai che non dovremmo stupirci più, ma constatarlo, esserne consci. E scopri – o meglio, ne hai la conferma – che forse è anche giusto, se chi è un’autorità mondiale nel settore della ricerca sceglie la Calabria, l’Unical, per continuare i suoi studi e poter trasferire il suo sapere agli studenti. È giusto, come lo è magari anche fare altre esperienze all’estero, e poi tornare, mettere le competenze (mi viene da sottolineare, non solo nel settore tecnologico) al servizio della propria terra e farne polo di eccellenza, luogo a cui guardare. E in cui poter vivere.
Trarre linfa dalla bellezza, come nel caso del Musaba. La cultura, la conoscenza, il futuro, le possibilità, il sogno a volte controcorrente: al di là di ogni retorica, il cronista Iannacone fotografa, ma con l’empatia si avvicina a ciò che vede, avverte ogni mutamento dello sguardo, ogni più piccolo sentimento, ogni pensiero, quasi lo prende su di sè e ce lo regala. Da qui quella commozione, che forse è un riconoscersi, ma forse, anzi certamente, non solo. Perchè la capacità di Iannacone è di arrivare a tutti, di far conoscere a tutti e di un vedersi riconosciuti da tutti.
Uno stille di narrazione. Come nella puntata di qualche anno fa, con un racconto che colpì tantissimo, quello della preside di una scuola di Caivano, il suo modo di cercare di superare le difficoltà, di essere vicino ai ragazzi, coinvolgerli, riportarli in classe.
E nella terza puntata di “Che ci faccio qui” – programma prodotto da Ruvido Produzioni -, in onda giovedì 13 giugno, in prima serata, su Raitre, il giornalista torna a Caivano per incontrare nuovamente la preside. Sceglie di tornare e – si legge nella nota di presentazione – di farlo “a “sangue freddo”, lontano dal clamore mediatico della cronaca nera, seguendo le orme di chi in questi anni si è salvato e di chi si è perduto. Eugenia Carfora, la preside dell’Istituto Francesco Morano, è sempre lì, non è mai andata via, e conduce ancora la sua personale battaglia contro la dispersione scolastica, che qui tocca livelli estremi”. L’Istituto Morano “è è diventato un potente messaggio di cambiamento, tanto che un importante imprenditore emiliano, Eugenio Gagliardelli, abbracciando il progetto visionario della preside, ha assunto nella sua azienda di ceramiche i ragazzi appena diplomati, offrendo loro anche un alloggio e un’auto. Un modello “olivettiano” di azienda dalla forte spinta sociale, che si fonde con l’idea di una scuola inclusiva, che non giudica e non lascia indietro nessuno”.