Tentare di fermare il tempo, poi farlo ripartire. Dargli un altro ritmo, insieme ad un altro sguardo, sempre profondo, ma più personale, più “proprio”. Narrare, in forma nuova, con nuove cesure, nuovi toni, ma con identica forza, identico spessore e intensità nella descrizione dell’umano, della persona, della vita. Con la capacità – unica e, proprio per questo, ancora una volta attestata dal massimo riconoscimento teatrale, l’Ubu – di costruire una drammaturgia che interseca piani, livelli, racconti, in un crescendo emotivo, scandito dalla sospensione prima di una riflessione o prima di un finale che – ancora una volta – arrivano diretti, colpiscono con poetico realismo e rimangono nella memoria.
Memoria, tempo, cambiamento: su questi tre elementi (e non solo) è incentrato “Via del Popolo”, lo spettacolo più recente di Saverio La Ruina, che il grande attore, autore e regista ha portato in scena a Reggio Calabria, concludendo nel migliore dei modi l’ottava edizione del Ragazzi MedFest, promosso con grande successo da SpazioTeatro, in chiusura di una tre-giorni di spettacoli che ha dato il “la” alla nuova stagione del cine-teatro Odeon.
Una strada, una delle due principali di Castrovillari – paese in cui La Ruina è cresciuto ed in cui ha dato vita, insieme a Dario De Luca e a Settimio Pisano, alla splendida esperienza di “Primavera dei Teatri” -, è il fulcro di un percorso: quello della narrazione, dello spettacolo e quello di uno dei personaggi del racconto, che, tra gli anni ’60 e ‘70, impiegava 30 minuti a percorrere una piccola via di duecento metri, altrimenti percorribile in 2 minuti e mezzo. Questo perchè un tempo quella via, così come tutto il paese, era ricca di botteghe, negozi, bar, tra cui quello della famiglia del protagonista, di personaggi con cui fermarsi a parlare e locali che pullulavano di vita, che riflettevano le anime di un paese, il bene e il male, la partecipazione e il sostegno, ma anche l’economia di una società completamente diversa da quella di oggi, mutata come la stessa strada di cui si parla.
Non c’è nostalgia, ma sguardo universale sul cambiamento, su quel tempo che, fin dalla scenografia dominata dal rimando ad un orologio alla Dalì, ritorna, a volte dando l’impressione di essersi fermato, altre di dilatarsi o di correre all’impazzata, segnando momenti e ricordando quanto sia necessario tenerli stretti. Memoria, dunque, che parte da una strada di un paese – che è quello dell’autore, ma nel quale ci si può universalmente riconoscere -, per intersecarsi con quella di una famiglia, anche in questo caso universalmente riconoscibile, e in particolare di un rapporto padre-figlio.
Ed è questa, ancora una volta, la forza artistica di Saverio La Ruina: il sapiente modo – che, come dicevamo, muta, cresce, si sviluppa attraverso lievi e profondi cambiamenti che arricchiscono la cifra stilistica del drammaturgo, ma anche del regista e dell’attore – di affabulare lo spettatore lo conduce sempre in mondi che dal particolare conducono all’universale, fotografie che nel tempo restano nitide, forti, attuali. Sia, come si sottolineava, nell’aspetto della scrittura che qui, in maniera magistrale e non a caso premiata appunto con l’Ubu, incrocia due percorsi, quello lungo la strada ricca di personaggi e quello del racconto familiare, intersecando ritmi, narrazioni, personaggi e sentimenti; sia nelle scelte registiche e sceniche (con il disegno luci curato da Dario De Luca e con la collaborazione alla regia di Cecilia Foti), con il racconto che si sviluppa in una strada delineata da due file di luci che potrebbero anche rimandare ad un palcoscenico, ad una passerella, ad un teatro che, quasi naturalmente, si creava lungo quella via di paese; sia nella capacità di un grande attore di coinvolgere, di fare entrare il pubblico nelle storie piccole e in quella personale, accendendo ricordi e sensazioni che, appunto, travalicano confini. E travalicano il tempo.