Un passo alla volta: come quando, da bambini, si giocava a campana, rimanendo quasi sospesi su una casella, prima di poggiare il piede sull’altra. Ma se, in quel caso, quel passo era spensierato, adesso, per il protagonista di “Un altro metro ancora – Ballata sul bordo della vita” potrebbe costare la vita, o, di contro, potrebbe aprire una strada verso la ricostruzione di una vita o verso il ritorno ad una terra dalla quale non ci si può staccare. Così, attraverso un percorso in un campo minato, seguiamo non solo un giovane che guida un gruppo di sfollati, sul finire della II guerra mondiale, ma i ricordi di quel giovane ex soldato, la sua vita, fatta della ricerca di una tranquillità illusoria, senza voglia di sacrifici o di ideali, mediata dallo sguardo di una madre, nel quale vedersi bello. Una vita che la guerra cambia, che la sua diserzione cambia, per farla diventare fuga, anche da se stesso; per fargli ritrovare il passato e poi perderlo nuovamente. Fino all’incontro con quel gruppo di persone che gli fanno capire cos’è l’amore: quello per la propria terra, per quel mare “che ti basta respirarne l’odore la mattina e hai tutto”; quella terra che si può anche lasciare per un po’, ma poi la ami troppo per non tornare. Anche se costa fatica. Ed allora, il giovane comprende che, senza facili eroismi ma con un’inedita determinazione, può unire coraggio e paura, così come si mescolano il rosso ed il bianco dell’uovo, farli diventare una cosa sola ed affrontare la vita, un metro alla volta.
Il testo di Katia Colica, già di per sè forte e denso di riflessioni importanti (come il tema del ritorno, dell’attaccamento alla terra, già trattato dall’autrice nel volume “Ancora una scusa per restare”, e naturalmente quello della migrazione forzata), acquista in scena, grazie alla regia ed all’interpretazione di Gaetano Tramontana, un’ulteriore intensità: e così, il nuovo spettacolo di SpazioTeatro traporta gli spettatori in questo viaggio, che è storia e attualità insieme (come testimonia il racconto del protagonista inserito tra le immagini degli “esodi moderni”, tra i volti di bambini che, oggi come ieri, sono testimoni e simboli di tragiche fughe), che è percorso interiore, approdo e ripartenza.
Tramontana costruisce un percorso scenico coinvolgente (sottolineato dall’apporto musicale di Antonio Aprile), attraverso l’uso dello spazio che diventa racconto e linguaggio poetico (come quell’angolo che si tramuta nella cantina dove il protagonista si rifugia dopo la diserzione ed il soffitto che media il rapporto con la madre); attraverso i video, che non sono semplice strumento per dare dinamismo, ma sono anch’essi linguaggio: come nel caso del racconto della madre, interpretata da Enza Caridi, che dà intensità al testo, anche attraverso la voce fuori campo che scorre sul suo viso, e attraverso le mani e lo sguardo che in altri momenti parlano da soli.
E, naturalmente, il regista dà poi vita al personaggio, incarnando quelle emozioni che traspaiono interamente sulla scena e arrivano dirette al pubblico, che sembra compiere insieme, alla fine – tale è il coinvolgimento – quell’ulteriore passo, quel metro ancora che fa andare avanti.