Ripartire “dal deserto rappresentato da alcuni territori” per ricostruire; ripartire da luoghi in cui si evidenzia una criticità, per sviluppare nuovi processi di riforma, nuovi progetti, “perché è proprio nel deserto che, paradossalmente, è più facile costruire”. Luoghi e territori del sud, ma non solo. Un processo nuovo, in ambito teatrale, che parta da questi luoghi è quanto proposto da Settimio Pisano, direttore organizzativo della compagnia “Scena Verticale”, nel corso del recente incontro “Stato e regioni nella promozione dello spettacolo dal vivo”, promosso da Ateatro. Un intervento – che proponiamo integralmente di seguito e che può essere letto anche sul sito Ateatro.it, insieme ai contributi degli altri relatori – che riguarda da vicino anche la Calabria.
“A monte di qualsiasi riflessione sulla questione del riequilibrio territoriale, credo debba esserci una necessaria presa d’atto della grande contraddizione in cui cadiamo nell’approcciare questo tema: se da una parte sosteniamo che in alcuni territori del Paese il tessuto economico, sociale, culturale è oggettivamente più debole; che la stessa consistenza democratica delle istituzioni locali è largamente più fragile; che alcune criticità comuni a tutto il Paese in alcuni territori sono amplificate – non possiamo dall’altra parte pretendere che il sistema di regole sia uguale per tutti. E chiaro che deve esserci un terreno di regole comuni, ma deve esserci in quanto cornice.
È necessario dunque prendere atto che, anche in ambito culturale e artistico, c’è un pezzo d’Italia che non ce la fa. La pandemia ha amplificato il divario tra i vari territori del Paese e alcune regioni, non solo a sud, hanno accusato particolarmente il colpo. Tra tutte, la Calabria e la Basilicata rappresentano ormai una sorta di buco nero all’interno della geografia culturale del paese, tanto che se oggi dovessimo tracciare un ipotetico ponte artistico sullo stretto di Messina, questo ponte dovrebbe partire da Salerno.
Perché c’è un pezzo del Paese che non ce la fa? Perché, evidentemente, gli attuali modelli di istituzioni artistiche sono insostenibili per alcuni territori. Ma è davvero soltanto un problema di mancanza di risorse adeguate e di cattive politiche pubbliche di alcune regioni? Siamo certi che anche in presenza delle necessarie risorse statali e regionali e di una migliore gestione del settore, alcune regioni riuscirebbero a sostenere, rimanendo nell’ambito del teatro, l’attuale modello di Teatro Nazionale o di Tric? Certo non tutte le regioni devono necessariamente avere una vocazione tale da esprimere un Teatro Nazionale, ma d’altra parte è possibile che una parte del Paese rimanga priva della possibilità di esprimere una propria istituzione artistica di rilevanza nazionale? Un’istituzione in grado di attenuare le asimmetrie territoriali anche in termini di pluralità dell’offerta artistica, che è un altro dei gravi problemi emersi con forza nel post pandemia: in diverse regioni italiane è infatti in atto un’omologazione senza precedenti, completamente schiacciata su una proposta commerciale, che è l’unica in grado in questo momento di affrontare il botteghino.
Quali possibilità hanno alcune regioni di costruire per i propri figli un orizzonte culturale, artistico, estetico e di dargli le stesse occasioni di crescita, di confronto, di formazione che hanno i loro coetanei nel resto del Paese? Credo sia piuttosto evidente che c’è un enorme problema in termini di pari opportunità di accesso democratico alla vita culturale nazionale.
Per arrivare al punto: quale può essere dunque un modello di istituzione artistica sostenibile per i territori più fragili e in che modo possiamo arrivare a costruirlo?
La strada da percorrere ce la indicano alcune esperienze del presente e del passato. I modelli a cui guardare, in termini di politiche concertate tra Stato e Regioni, sono quelli dell’attuale sistema delle Residenze e del progetto Aree Disagiate (progetto promosso dall’ETI alla fine degli anni 90 che riguardò cinque regioni del meridione). La strada è quella di sviluppare, attraverso accordi di programma tra lo Stato e le Regioni, progetti che abbiano un tempo di incubazione di lungo respiro, abbastanza lungo da poter innescare processi di accompagnamento e di cambiamento verso nuovi modelli di istituzioni artistiche in grado di legittimare l’accesso al finanziamento pubblico sulla base di parametri differenti dagli attuali. Partendo da un concetto che spesso è scomodo per i tempi di una politica che guarda ai risultati immediati: e cioè che i processi sono altrettanto o forse più importanti dei risultati. Perché i processi sono lenti, invisibili, estenuanti. Ma i processi permettono di trasformare pratiche, superare resistenze, piantare radici profonde difficili da estirpare e che un giorno daranno risultati visibili. Per avviare questo percorso di riforma delle istituzioni artistiche io credo sia necessario un grande sforzo di immaginazione, perché oggi le istituzioni vanno reinventate in relazione a circostanze politiche e culturali profondamente mutate.
Forse bisognerebbe avere il coraggio di immaginare che, magari non domani, ma forse dopodomani, gli attuali modelli di Teatri Nazionali e di Tric possano essere superati a partire dalla loro stessa denominazione e definizione, in direzione di una dichiarata e sostanziale multidisciplinarietà che dia diritto di cittadinanza a quelle creazioni contemporanee più ibride che non trovano spazio nel nostro paese.
Forse bisognerebbe avere il coraggio di immaginare che proprio dal deserto rappresentato da alcuni territori si può partire in questo processo di riforma, convertendo il vuoto istituzionale in opportunità di costruzione di nuove strade. Perché è proprio nel deserto che, paradossalmente, è più facile costruire, perché ci sono meno resistenze e meno spinte alla conservazione. Del resto, la storia politica e culturale del nostro Paese e non solo, ci insegna che proprio nei momenti di grande fragilità e proprio nei contesti più marginali si è costruito il futuro.
Bisogna quindi avere il coraggio di avviare progetti pilota in accordo tra lo Stato e le Regioni, per fare in modo che a chi sta indietro venga dato il tempo e il denaro necessario a trovare la propria via, avendo anche l’ambizione di aprire una strada di sperimentazione esportabile in altri contesti. Perché se è vero che gli attuali modelli sono insostenibili per alcuni territori, è vero anche che il resto del Paese non ci sta così comodo”.