Dal film all’opera teatrale, ancora una volta vincendo la sfida: dopo “Magnifica presenza” di Ozpetek, anche “Perfetti sconosciuti” di Paolo Genovese riesce nell’intento di non snaturare l’originale cinematografico, trovando una propria cifra e un proprio linguaggio teatrale, attraverso le scelte registiche e un cast di alto livello, che si cala in questa prova facendo propri i personaggi. E conquistando il pubblico del Teatro Cilea di Reggio Calabria, nelle due serate in cui lo spettacolo è stato proposto, nell’ambito della rassegna promossa dalla Polis Cultura.

Una sfida vinta ampiamente da Genovese, che porta in scena il suo film, di cui mantiene praticamente intatta la sceneggiatura (e non potrebbe essere altrimenti, dato che ogni singolo elemento, ogni frase o svolta costituisce un ingranaggio imprescindibile di una storia e di una scrittura che funziona in maniera perfetta) e riesce a riproporla in forma drammaturgica sul palco creando, come dicevamo, un linguaggio teatrale che consente di mantenere lo stesso stile, la stessa forza di un’opera cinematografica divenuta una tra le più viste non solo in Italia, ma in tutto il mondo, vantando anche il più alto numero di remake mai realizzato nella storia del cinema.
Così, sul palco rivive la storia di 7 amici che si ritrovano per una cena, durante la quale la padrona di casa proporrà un gioco: lasciare sul tavolo i cellulari e rispondere in viva voce alle chiamate o leggere i messaggi che arriveranno durante la serata. Per mostrare che non si ha nulla da nascondere e farlo attraverso quella che è ormai diventata “la scatola nera delle nostre vite”, ossia il cellulare. Ma il gioco riserverà amare sorprese, dato che ognuno ha un segreto, anche più di uno, da nascondere.

Una storia, anzi un succedersi di storie che si intrecciano con un meccanismo impeccabile, che poteva sembrare difficile da riprodurre sul palcoscenico: e invece, come detto, Genovese vince la sfida e riesce a coinvolgere sia gli spettatori che non hanno mai visto il film, ma anche chi lo ha amato e non resta deluso.
Una delle particolarità di questa versione teatrale è, ad esempio, la scelta con cui il regista riesce a modulare abilmente lo spazio per dare vita alle differenti scene, illuminando, di volta in volta, la parte del palcoscenico in cui si svolge il dialogo tra alcuni protagonisti, mettendo in ombra il resto: come in un cambio inquadratura, che però avviene a vista e mantenendo sempre il legame con il contesto. Qualcosa che era indubbiamente non facile da rendere, ma Genovese ci riesce in pieno. Supportato da un altro aspetto, quello relativo al linguaggio scenico, al ritmo più sostenuto che viene conferito alla drammaturgia, pur seguendo la sceneggiatura, tranne alcune lievissime modifiche che sono funzionali alla traduzione teatrale dell’opera. Un ritmo che consente di tenere sempre alta la tensione, sia della parte di commedia che di quella drammatica. Parte, quest’ultima, di cui Genovese abbassa leggermente i toni – ma mai l’intensità, essendo il dramma in cui sfocia ogni storia il momento centrale dello spettacolo, basti pensare al monologo cruciale del personaggio di Massimo De Lorenzo -, adeguandola alla visione teatrale, al ritmo stesso, all’esigenza di rendere quei drammi, quei monologhi più diretti, senza avere gli strumenti dei primi piani o dei cambi di prospettiva. Una scelta che mostra la capacità, dunque, di mutare linguaggio, anche attraverso tocchi piccolissimi, quasi impercettibili, ma che danno dinamicità e, nello stesso tempo, senza perdere nulla di quel percorso drammaturgico che ha reso “Perfetti sconosciuti” un’opera che ancora oggi colpisce, diverte e fa riflettere.

E, in questa direzione, un’altra scelta si mostra interessante e vincente: ogni interprete fa proprio il personaggio, non rifacendosi all’omologo cinematografico, ma percorrendo strade proprie, appunto, che tuttavia – anche in questo caso – non snaturano affatto il racconto, né danno connotazioni diverse ai protagonisti, evitando la caratterizzazione eccessiva dei personaggi stessi e traducendoli nella loro verità. Una precisa scelta registica, presumiamo, che trova totale adesione da parte di un cast di alto livello. Una scelta che diventa davvero dirompente nei duetti tra Dino Abbrescia e Massimo De Lorenzo (gli amici che si scambiano i cellulari), ma che si nota in tutti gli interpreti: da Paolo Calabresi, che esprime con grande intensità i passaggi dal comico al drammatico del padrone di casa, Rocco; a Valeria Solarino, nel ruolo – spigoloso e ricco di risvolti inattesi – della psicologa Eva; a Dino Abbrescia e Lorenza Indovina, attori che, ancora una volta, mostrano la grande capacità di modulare il loro talento tra diversi strumenti espressivi e che, nei panni di Lele e Carlotta, riescono a sottolineare ogni sfaccettatura, ogni sentimento; a Paolo Briguglia, che si cala con abilità e misura nel ruolo non semplice dell’amico che forse nasconde più segreti e più volti, ovvero Cosimo, novello sposo di Bianca, interpretata da Alice Bertini, sorprendente e convincente nel rendere la personalità più delicata e ottimista del gruppo; fino a Massimo De Lorenzo, autentico mattatore, che regala al pubblico una delle sue migliori interpretazioni con il personaggio di Peppe, alternando, con sapienza scenica, toni comici e drammaticità, fino al citato monologo. Quel pezzo che sembra chiudere lo spettacolo, ma che in realtà, come sappiamo, apre al sorprendente finale: anche in questo caso, un momento non facile da rendere in teatro, ma Genovese trova la quadra, attraverso una coralità che consente di dare allo spettatore la stessa sensazione che regala il film, di cogliere quel senso di “sliding doors” e soprattutto di verità celate abilmente dietro la “scatola nera” tecnologica. Quel cellulare che ritorna in scena, al temine dello spettacolo e dell’ovazione che accoglie tutto il cast, con l’iconico selfie che caratterizza “Perfetti sconosciuti” e che gli interpreti, in questo caso, scattano insieme a tutto il pubblico.