Tradurre un concept album divenuto iconico, come “La buona novella” di Fabrizio De Andrè, in qualcosa che superi il concetto della “semplice” riproposizione in un concerto, creando uno spettacolo vero e proprio, in cui la musica e il racconto si uniscono con naturalezza e talento: Neri Marcorè vince una grande sfida, portando in scena lo spettacolo che si fonda su quest’opera (che a Reggio Calabria, in un teatro “Cilea” sold out, ha chiuso il programma della rassegna teatrale promossa dalla Polis Cultura) e dando prova di grande maturità artistica, sia sotto l’aspetto dell’interpretazione attoriale, ricca di sfumature, che di quella musicale, con una voce che riprende i toni di De Andrè, ma non ne ricalca l’espressione, bensì il senso profondo.

L’album in cui il cantautore parte dai Vangeli Apocrifi – soffermandosi sull’infanzia di Maria, sulla vita di Giuseppe, su aspetti più umani di alcune figure o su alcuni personaggi come i due ladroni – unendo, da laico, l’umanità ad una spiritualità che emerge attraverso un’analisi tra visione contemporanea e allegoria, prende forma nell’omonimo spettacolo, con la drammaturgia e la regia di Giorgio Gallione, che accosta ai brani un racconto che dà ulteriore corpo alla musica. Marcorè, interpretando quelle parole, approfondisce il percorso seguito dal cantautore, aggiunge dettagli o vicende, spiega i vari passaggi: ma non è mai una analisi filologica, bensì una narrazione che, con profondità ma in modo discorsivo e mai aulico, trasporta il pubblico, anche con qualche sorriso e con capacità espressiva, in “una sorta di sacra rappresentazione contemporanea” in cui l’umano fa emergere l’aspetto spirituale e morale.

Drammaturgia, come si diceva, ma anche regia: è l’aspetto che dà vita alle parole, che le rende storia narrata in scena, che ne fa spettacolo oltre il concerto. La concatenazione accurata tra il racconto dell’infanzia di Maria, quella di Gesù, la sofferenza della Madre davanti alla Passione, si dipana attraverso le parole che si uniscono ai capolavori di De Andrè, in una scenografia che evoca con piccoli tocchi, ma che riempie il palco: gli elementi scenici che vengono calati dall’alto, spesso metaforici (come la scala con in cima una rosa rossa, che poi appare nuovamente, ma disseminata di petali del fiore); le luci, che avvolgono senza utilizzare effetti speciali stranianti; la disposizione dei musicisti (Giua, voce e chitarra; Barbara Casini, voce, chitarra e percussioni; Anais Drago, violino e voce; Francesco Negri, pianoforte; Alessandra Abbondanza, voce e fisarmonica), che si intreccia con quella di Marcorè e di Rosanna Nadde (che dà vita alle parole di Maria), con movimenti che permettono alle voci e alla narrazione di intersecarsi tra note e parole e di trasferire un’omogeneità di lettura e di interpretazione, restituendo al pubblico la completezza dell’opera del cantautore. Il racconto, mai retorico, ma pieno e lieve, di Marcorè e Nadde, si unisce, quindi, con naturalezza ai brani: e, anche qui, l’interpretazione fa la differenza, con lo stesso Marcorè che, come si diceva, si cala con rispetto e rigore, ma con personalità, in questa narrazione musicale, tra voce e chitarra; con la citata Rosanna Nadde, che propone con intensità la figura di Maria, interagendo con le altre straordinarie voci, che si incontrano armonizzando con grande sapienza, e con i suoni che arrivano dagli strumenti.

Da “L’infanzia di Maria”, a “Tre Madri”, dal “Laudate Dominum” che nel finale diventa “Laudate hominem”, fino a “Il testamento di Tito”, il pubblico riconosce le parole del cantautore che ha amato o lo scopre nell’intensità e nella profondità della sua ricerca, e, grazie alla canzone che si fa teatro, ne assapora ancor di più l’essenza.
Non poteva esserci, dunque, migliore conclusione per la stagione invernale curata dalla Polis Cultura, che si avvia adesso a celebrare i 40 anni di Catonateatro, con una programmazione appena resa nota (e sulla quale torneremo a breve).