Destrutturare, scomporre una storia senza tempo; disseminarla di spunti, che rimandano all’universalità; immaginare finali diversi, pieghe differenti di un percorso, allontanando la tragedia; farne racconto esterno, di un testimone, di un cantastorie, di un attore. E realizzare tutto questo usando ogni strumento teatrale, e artistico in senso più ampio: dalla vocalità alla ricerca musicale; dal movimento, alle luci che disegnano la scena, componendo quadri con echi cinematografici; dal testo drammaturgico, in cui poesia e rimandi musicali si incontrano, al disegno, elemento in sè apparentemente statico e che qui, invece, crea dinamicità e fluidità di racconto.

Racconto: parola chiave per definire “Hamlet in pieces”, il nuovo spettacolo di e con Ernesto Orrico, prodotto da Teatro Rossosimona e proposto in anteprima nell’ambito della rassegna di SpazioTeatro, a Reggio Calabria. Potrebbe sembrare un paradosso, non trattandosi di narrazione in senso stretto, tradizionale, di un racconto costruito su un percorso di prosa “lineare”, bensì su un poetico viaggio attraverso il capolavoro shakespeariano: potrebbe sembrare, qualora considerassimo racconto solo qualcosa che rientra in questi precisi canoni. Ma raccontare è anche – anzi, soprattutto – fornire spunti, immaginare, destrutturare, appunto, per rimandare al pubblico l’essenza, il senso di ciò che Shakespeare ha scritto secoli fa e che ritorna, sempre: allora la poesia, l’immaginazione, le sliding doors, il raccordo tra la tragedia che si dipana in Danimarca e in Calabria, o in Ucraina, in Palestina o in altre parti del mondo, sono pienamente racconto.

E dal racconto parte Orrico, guardando alla figura di Orazio, moderno cantastorie investito di un compito arduo, quello di mantenere in vita la storia di Amleto; e ad Orazio ritorna, alla fine, dopo aver viaggiato attraverso quella tragedia universale, per capirne il senso e capire il senso di ciò che accade in ogni tempo. Orazio, come testimone e cantastorie, e l’attore, come osservatore ed interprete, che prende quasi su di sé il compito di fare da tramite tra una storia che travalica confini ed epoche e il tentativo di rileggerla, sviscerarla, condurla verso lo spettatore.
Raccontare, dunque: anche come il contrario di uccidere, come antidoto all’orrore. La poesia come antidoto, come piccola goccia, come elemento di costruzione. Ed è ciò che Orrico riesce a materializzare in scena: un percorso di grande impegno attoriale, in cui si intersecano i diversi momenti della storia, si affrontano i diversi temi che la tragedia ha in sè (la follia, la violenza, il potere, la famiglia), “le storie di sempre”, che però ogni volta possiamo leggere e di cui possiamo cogliere il senso attraverso una chiave differente.

C’è il ritmo coinvolgente del succedersi di fatti, che si confronta con la poesia e i rimandi lirici di canzoni o altri immaginari; c’è l’uso della voce, che calibra la singole parole, ne distorce artisticamente i suoni, le lascia modulare dalle note (quelle delle musiche originali di Massimo Palermo); c’è l’immagine di una storia che spinge con forza, per tornare ad essere raccontata, e ci sono altre immagini (nei disegni realizzati da Raffaele Cimino), quelle dei protagonisti di quella storia, che finiscono in terra, trafitte come i personaggi che rappresentano, mostrando la tragedia, la caducità di mondi e pensieri, che si lasciano andare all’odio, alla ricerca del potere, da sempre e in qualsiasi luogo.
Ad unirli, in un raccordo tra momenti, riflessioni, viaggi nella vita dei protagonisti stessi, è appunto una drammaturgia complessa – nel senso della molteplicità di elementi diversi -, ma che arriva a tutti, e una ricchezza interpretativa, che si modula attraverso gesti, invenzioni, sapiente uso della vocalità, padronanza scenica.
Ernesto Orrico ritorna, così, a 20 anni da “Hamlet cuts” (scritto insieme a Marcello Walter Bruno), a guardare al dramma shakespeariano da più angolazioni, da prospettive inusuali, fornendo visioni nuove e nuove domande, che è poi il compito del teatro.
