Grande forza attoriale, padronanza scenica, tempi comici perfetti, mimica che rafforza la parola, la precede, versatilità e intelligenza, che vena la commedia di riflessione e sottile malinconia: è Emilio Solfrizzi a rendere questa nuova versione de “Il malato immaginario” uno spettacolo che coinvolge, anzi travolge il pubblico. Entusiasmando: come accaduto a Reggio Calabria, in un Teatro Cilea sold out che ha accolto con un’ovazione la performance del protagonista e dell’intero cast.
Un successo che Solfrizzi determina con il suo talento, la sua poliedricità, il suo saper tenere le fila di un classico, come la pièce di Molière, rendendolo ancora più vicino al pubblico di quanto non lo sia già, evidenziando le innovazioni dell’adattamento (curato dal regista Guglielmo Ferro), senza stravolgere, ma creando quasi un naturale continuum tra l’opera e le intenzioni dell’autore, e piccoli tocchi, piccole aggiunte, movimenti scenici, echi di una comicità più vicina nel tempo (come le citazioni di Totò), che non snaturano l’opera stessa, ma ne sottolineano ancora di più l’universalità. Come universale è la storia, che, appunto, l’adattamento – anche di linguaggio e di toni – non fa che evidenziare e rendere ancora più leggibile, fluida.
E lo fa, attraverso l’interpretazione di Solfrizzi: un Argante più giovane e in questo più aderente alla scrittura; un personaggio meno statico, più centrale e “motore” scenico, ma nello stesso tempo legato agli altri protagonisti, in un dialogo, quasi una partitura che si muove con ritmo incessante, con sfumature accurate, senza cadute. Centrale come l’elemento della scenografia (curata da Fabiana Di Marco) che sovrasta tutto e tutti, un’unica struttura, una sorta di torre che si innalza fino al soffitto e sulle cui scale Argante sembra ancorarsi, percorrendole alla ricerca di un rimedio galenico ai propri inesistenti malanni, come metafora di una fuga dalla realtà o da chi lo circonda. Attorno a questa torre – appunto metafora di una centralità quale la malattia dell’anima o il mettersi al centro di tutto, come fa Argante – si muove la narrazione, che non dimentica l’elemento di farsa, ma lo trasforma attraverso toni più reali o realistici, più vicini ad un racconto che si accosta con naturalezza allo spettatore, senza perdere la propria forza, il proprio stile.
Lo fa, come detto, grazie al talento di Solfrizzi, e anche a quello di un cast altrettanto di livello: da Lisa Galantini, una grande Tonina, forte, coinvolgente ma allo stesso tempo misurata, ad uno straordinario Luca Massaro, che scatena applausi a scena aperta con il suo grottesco Tommasino. E ancora, Antonella Piccolo, Sergio Basile, Viviana Altieri, Rosario Coppolino, Cristiano Dessì, Cecilia D’Amico.
Un’orchestra che suona all’unisono, come si diceva, lasciando poi il protagonista solo in scena, in un insolito finale, in cui i personaggi reali cedono il posto a pupazzi ai quali Argante si rivolge, con un tono in cui la malinconia e la riflessione prevalgono, apprestandosi a scalare, ancora una volta, la torre.