Il dolore che unisce, al di là di tutto, come un filo unico, come una danza, che racchiude in sè tutta la sofferenza del mondo e ricorda il suo contrario, la gioia e l’amore, l’attesa e la speranza.
La perdita, l’assenza che unisce, uguale in ogni angolo della terra, al di là delle storie, diverse ma poi non tanto.
Le storie degli esseri umani, che non devono essere identificati da un numero, ma dalla poesia, essere poesia. A scriverlo è Tiziana Bianca Calabrò, a far vivere queste parole è Renata Falcone, in un percorso tratteggiato con sapienza dalla mano registica di Basilio Musolino: “A(r)mo”, l’arte teatrale che diviene strumento per tradurre l’indicibile, renderlo carne viva, venarlo di ironia per attraversare il dramma, come lo stile dell’autrice riesce sempre a fare. Non è solo uno spettacolo, quello andato in scena per due repliche sold out all’Osservatorio sulla ‘ndrangheta – Antigone: è la capacità di unire una storia – più vicina a noi nello spazio, più ancorata al territorio, ma che esprime ancora, per molti versi, un’universalità – di dolore, di un vissuto difficile di una donna, alle storie di chi è stato costretto a lasciare il proprio paese, morendo in un mare, anch’esso a noi vicino.

Dolori che sono identici e che in quel luogo, Armo, dove si trova il cimitero che accoglie le spoglie di 45 migranti morti nel 2016, trovano la sintesi, il centro di un racconto, di un desiderio di condivisione, una vicinanza, un conforto. Un abbraccio, ideale ma anche fisico, da parte di una donna, che stringe i fili di ferro innalzati su singoli mattoni: tombe stilizzate, quasi un “non finito” che sembra riflettere un dolore che si erge verso il cielo e che non trova, appunto, fine. E’ qui che Carmen si reca, portando ad ogni defunto delle margherite: ma è soprattutto ad uno di loro che si rivolge, cui ha dato lo stesso nome del suo amore perduto, del fidanzato scomparso mentre lavorava oltreoceano. Gli dà un nome, lo rende una persona, non un numero. Con lui parla, si confida, si racconta, come in uno scambio di anime, un filo che non si vuole spezzare, quello del ricordo e della memoria; come i fiori che regalò al suo uomo prima che partisse, in pegno di quel ricordo, e che lei dedica al migrante cui si rivolge, portando anche lui nella sua memoria. Dandogli dignità, dandogli un nome. Come agli altri defunti, di cui accenna le storie.

Il suo dolore, di donna fiera nella sua semplice saggezza, che fugge da una vita predestinata e viene definita folle, incontra quello degli altri, dei familiari di quelle vittime, un dolore sopito, mai conosciuto, ma che rivive attraverso le sue parole.
Non c’è retorica, non c’è nulla di didascalico o ridondante: l’arte, la parola, dà corpo a quella dignità, alla dignità del dolore, alla sua forza, al racconto duro, ma reale.

La scrittura di Tiziana Calabrò, che costruisce due piani di narrazione perfettamente integrati, e l’interpretazione, intensa e misuratissima, che fa, appunto, dell’arte teatrale il mezzo per tradurre la realtà, parlare a tutti, arrivare in modo diretto e vero. Così Renata Falcone diventa, incarna Carmen, la fa vivere e, con la metafora che nasce dalla ripetuta gestualità, “danza” la sua storia e il suo dramma, tra quelle anime, prendendo quel dolore e facendone, appunto, arte: forse l’unico strumento oggi rimasto per conoscere e far conoscere, riflettere, farsi domande.