E’ ormai una tendenza consolidata da alcuni anni – e sostenuta in particolare dai maggiori festival cinematografici, da Venezia a Roma – quella che vede l’incontro tra cinema e teatro: sia con registi/registe teatrali che realizzano versioni per il grande schermo delle loro opere portate in palcoscenico, sia con backstage, che raccontano la nascita di uno spettacolo o la storia di una compagnia; o ancora, con il mezzo filmico (non esclusivamente in chiave documentaristica) utilizzato per ripercorrere momenti della storia del teatro (come “75 – Biennale Ronconi Venezia”) o la biografia di personaggi che hanno costruito il teatro mondiale. A quest’ultima categoria appartiene “Prima danza, poi pensa – Alla ricerca di Beckett” (nelle sale dal primo febbraio), che il regista James Marsh (“La teoria del tutto”, “Man on wire”, doc per cui ha vinto l’Oscar) ha dedicato alla figura del grande autore.
Un incontro tra cinema e teatro, in cui i due elementi non prevalgono l’uno sull’altro: è cinema allo stato puro, con aspetti visivi che divengono linguaggio, facendo entrare lo spettatore, fin dalla prima scena, nel mondo di Samuel Beckett. È questo l’elemento principale che connota il film, in particolare nella prima parte: ovvero, il restare opera cinematografica, ma costruendola – sia, appunto, visivamente, che attraverso i dialoghi – in modo da divenire quasi specchio dello stile beckettiano. Ed è così che, in molte scene, la vena ironica, sarcastica, l’assurdo, il paradosso, sembrano proprio riportare al suo teatro: come se, davanti al vissuto dell’autore, raccontato sullo schermo, si stesse assistendo alla messa in scena di una sua opera. Un aspetto che traspare, in particolare, nei suoi discorsi con Joyce: e, in questo, la sceneggiatura diventa speculare alla drammaturgia, si sviluppa in maniera profonda e venata da quella particolare ironia che connota la scrittura di Beckett.
Una sceneggiatura non convenzionale, come dichiara lo stesso autore Neil Forsyth: si è “giocato con la forma del biopic come Beckett giocava con la forma in ogni mezzo con cui lavorava, alla ricerca di temi centrali che attraversavano la sua vita e il suo lavoro”. Non si tratta, infatti, della consueta biografia, che il regista definisce “insolita, perché passa in rassegna la sua vita attraverso la lente dei suoi errori. E’ costruita attraverso le sue relazioni con le persone che amava e che lo amavano ma cui sentiva di aver fatto torto”. Infatti, il film si sviluppa attraverso quadri, “che mostrano i rapporti chiave nella sua vita, principalmente concentrati sulle donne che lo hanno circondato”. Si parla della vita di Beckett, e naturalmente della sua opera, ma anche e soprattutto della costruzione della sua personalità e dei rapporti, appunto, importanti della sua esistenza: dalla madre, a Joyce e alla figlia, al migliore amico Alfy, che lo coinvolse nella resistenza, alla moglie, all’amante, Barbara Bray, giornalista della BBC (e il triangolo amoroso, il dolore che provocava in tutte e tre, fu al centro di un’opera, “Play”, ovvero “Commedia”, recensita poi dalla stessa giornalista). Ed è lo stesso Beckett a rievocare questi momenti, in un dialogo immaginario con il suo doppio, con la personificazione della sua coscienza. Perchè i temi che emergono sono proprio il senso di colpa, la vergogna, il ripensare ai suoi errori, punto da cui inizia il film: temi che sono al centro di “Prima danza, poi pensa” e che ritornano nella sua opera.
Dunque, un incontro stretto tra cinema e teatro, che prosegue in questo film, anche attraverso gli attori: non a caso, protagonista, nel ruolo di Beckett adulto (ad impersonarlo da giovane, in un’interpretazione quasi mimetica, è invece Fionn O’Shea) è Gabriel Byrne, celebre attore cinematografico, ma anche apprezzato interprete teatrale.