Una grande emozione: è con questo sentimento, con grande attesa, che Fabio Mollo – regista pluripremiato, che ha colpito pubblico e critica già dal suo esordio, “Il sud è niente”, per poi dare vita ad altri film di successo (da “Il padre d’Italia” a “My soul summer”), serie tv (da “Tutto può succedere” a “Renata Fonte”, da “Curon” a “Masantonio”), al bellissimo documentario sulla lavorazione di “The Young Pope” – guarda alla presentazione alle “Giornate degli autori”, alla Mostra del cinema di Venezia, del suo film “Semidei”, dedicato ai Bronzi di Riace, per quello che definisce un “esperimento”, ma anche un’opera che ha vissuto e sente tantissimo. Un’opera – che ha diretto con Alessandra Cataleta, e scritto insieme ad Armando Maria Trotta, Massimo Razzi e Giuseppe Smorto – prodotta da Palomar, che sarà presentata, nell’ambito delle Notti Veneziane, il prossimo 6 settembre.
Parla proprio di emozione e di esperimento, all’inizio della nostra conversazione su questo nuovo film, una narrazione differente dei Bronzi, che unisce passato e presente, ma guarda anche al futuro.

Come è nata questa idea?
“E’ stata una lunga riflessione, non ci sono arrivato subito. Nel momento in cui è nata questa idea di raccontare i Bronzi, in occasione del cinquantenario della scoperta, quello che è scattato, essendo di Reggio Calabria, è stato l’orgoglio, è stato subito un conferirmi il compito di cui vado molto orgoglioso, per il quale mi sentivo addosso una grandissima responsabilità, volevo che fosse un film per tutti, che sapesse emozionare tutti. E quindi ho ragionato a lungo, ho studiato non solo i Bronzi in sé – accompagnato dallo storico Daniele Castrizio, da Nuccio Schepis, che ha condotto il restauro, e da tante altre figure che hanno studiato i Bronzi -, ho fatto anche uno studio in generale sull’arte, sul teatro greco, sul Mito e la riflessione che mi ha emozionato tanto è questa idea che l’arte sia anacronistica, sospende il tempo e ne crea uno tutto suo, l’attraversa. E mi ha emozionato il fatto che queste statue abbiano viaggiato attraverso il tempo, attraversato secoli, luoghi, vite umane, dal momento in cui sono state create. Statue create più di 2500 anni fa e da allora hanno comunicato agli esseri umani. Volevo provare a raccontare questa loro capacità di attraversare il tempo e da lì è nata l’idea di un racconto che mischiasse passato, presente, futuro, perchè dopo di noi loro continueranno ad esserci. Però, ovviamente le statue sono state create per un motivo, per lanciare un messaggio: la follia della guerra, ancor di più la guerra fratricida, messaggio che, attraverso la storia dei secoli, gli artisti hanno provato a raccontare attraverso il Mito e poi attraverso le due statue. Abbiamo provato a raccontare come questo messaggio ha vissuto, come vive oggi e come può vivere domani. Oggi è attuale più che mai. Se c’è un momento in cui deve essere ascoltato è proprio oggi, per quello che stiamo vivendo in questo momento. Quindi, oggi più che mai i Bronzi non sono solo due statue che stanno in un museo, ma sono un messaggio che vive e che deve essere ascoltato. Abbiamo provato a dargli altro fiato”.
Nel film c’è molto della tua visione cinematografica, del modo di parlare attraverso le immagini. E – senza “spoilerare” nulla – c’è una sintesi tra passato, presente e futuro, anche nelle immagini, con quelle del presente che si sovrappongono, quasi senza soluzione di continuità, con quelle del passato, tra cui quelle di De Seta.
“In questo caso, è stato quasi automatico. De Seta è forse il più grande documentarista che abbiamo avuto in Italia, se non uno tra i più grandi al mondo. Ricordo, da giovane studente di cinema, l’emozione di vedere questo documentario che lui ha girato raccontando la Calabria, terra a cui è rimasto molto legato, tant’è che poi è ci è andato a vivere e vi è rimasto fino ai suoi ultimi giorni. La realtà che lui riusciva a raccontare era molto specifica, un piccolissimo paese dell’entroterra calabro, ma allo stesso tempo una storia universale, un luogo dimenticato da Dio, come si dice dalle nostre parti, e attraverso “I dimenticati” stava raccontando proprio quello, ed era un po’ la Calabria in cui sono arrivati i Bronzi: la Calabria del 1972, soprattutto la provincia di Reggio Calabria, era una terra dimenticata da Dio, non era cambiata molto da quella raccontata da De Seta. Quindi, io penso – è un po’ un mio viaggio che mi sono fatto con la fantasia, che poi rilancio nel film – che i Bronzi siano arrivati nel 1972 in Calabria per un motivo specifico, perchè era quella Calabria di De Seta: è stato proprio un messaggio divino che è arrivato su questa terra, ed è arrivato in quell’angolo della terra, della Calabria, perchè doveva arrivare lì, secondo me”.

L’immagine è anche di speranza, la Calabria che viene raccontata con questo senso di speranza, che è universale, ma che riguarda anche questa terra.
“lo sento tutto questo, ma anche rispetto a tutto il cinema che ho fatto fino ad oggi, soprattutto quello che raccontava la Calabria: ho sempre pensato, immaginato questo futuro della Calabria, con le forme, i visi delle nuove generazioni. Non perchè la mia ne uscisse sconfitta: io ho fatto una scelta di andare via, salvo poi tornarci per girarci qualsiasi film, quindi vuol dire che una parte di me è rimasta e ci rimarrà per sempre; ma mi ha sempre emozionato leggere negli occhi di una giovane donna o di un giovane uomo calabrese quella voglia di restare e di immaginare un futuro per la propria terra. E, oggi più che mai, questa cosa la vedo concreta: per molti di noi era un sogno, per le nuove generazioni ho come la sensazione che ci sia un senso di possibilità ed è quello che mi auguro, mi auguro che questo succeda, che possa succedere quello che è accaduto in Puglia negli ultimi 20 anni.
Un po’ lo sto vedendo: quando lo scorso anno ero a Locri a girare “My soul summer”, ho visto una Locride molto bella, molto positiva, che passava attraverso un legame con il territorio, enogastronomico, ma anche un discorso sull’ecologia, ho visto più progetti ecologici e di rispetto della natura a Locri che a Roma. Mi ha colpito molto, così come vedere molti ragazzi della nostra generazione che sono tornati dopo esperienze che hanno fatto fuori dalla Calabria per aprire attività, con principi appresi fuori e poi applicati sul territorio, per produrre prodotti del passato a cui viene data nuova vita; questo non dimenticare, non rimuovere completamente il passato, ma anzi trasformarlo in risorsa e in qualcosa che può vivere oggi.
Il mio sogno un giorno è potere avere una piccola casa là, magari anche a Riace”.
Alla fine, il discorso ritorna sulle emozioni della vigilia della presentazione veneziana: “Per me è una grande emozione, perchè di festival ne ho frequentati, Berlino, Cannes, Toronto, ma non ero mai stato a Venezia, se non tantissimi anni fa, nel 2005, con un corto, e io quest’anno, a settembre, festeggio i 10 anni dall’uscita de “Il Sud è niente”: quindi, per me è una grande emozione anche per quello. Andrò non solo per festeggiare i 10 anni di carriera, con questa mia piccola prima volta, ma ci andrò anche con questa storia: perchè, tra tutte, è quella che mi mette anche a nudo. Il cinema di finzione ti permette di camuffare delle cose, di trasformarle in altro, il cinema del reale – che ammiro tantissimo – mi ha messo molto più a nudo, soprattutto su una storia del genere che ha a che fare con le mie radici profonde. E’ una grande emozione per tutte queste cose, non è soltanto una presentazione a Venezia. E sono anche emozionato perchè, essendo un po’ un esperimento, sono stato felice che Venezia, le “Giornate degli autori” lo abbiano capito e selezionato e spero che poi anche il pubblico, soprattutto calabrese, possa condividere questa storia”.