Un lavoro complesso, con più linee stilistiche, con un’accurata ricostruzione ed un’analisi di un personaggio letterario ormai entrato nel cuore di tanti appassionati lettori: così il regista Alessandro D’Alatri ed il protagonista Lino Guanciale illustrano il percorso che ha portato alla realizzazione delle sei puntate de “Il commissario Ricciardi”, l’attesissima fiction, tratta dai romanzi di Maurizio De Giovanni, che andrà in onda su Raiuno a partire da lunedì 25 gennaio.
“La sfida più complessa e difficile che abbia affrontato – esordisce D’Alatri in conferenza stampa – innanzitutto per la mole narrativa, che riguardava più fili narrativi”. Poi, “una Napoli mai raccontata, quella degli anni ’30: un’avventura incredibile, perchè bisognava costruire un immaginifico completamente diverso da quello raccontato finora. Avevo già attraversato questo periodo storico con “Il giardino dei Finzi Contini” e “Americano rosso”, un ritorno felice, dunque. Ricostruire Napoli dell’epoca non è una cosa facile, c’è stato un grandissimo sforzo artistico e produttivo”. “L’impaginazione generale è stata molto complessa – evidenzia – con la ricostruzione di tutti i dettagli, i costumi, con un’attenzione ai tessuti dell’epoca, forse il periodo più bello per i costumi, sia maschili che femminili”.
E ancora: “I vicoli dei Quartieri Spagnoli e della Sanità li abbiamo ricostruiti a Taranto (dove si è girato per 9 settimane, il resto delle riprese, per 19 settimane, è stato effettuato a Napoli, ndr.), città borbonica che aveva mantenuto lo stesso aspetto dell’epoca”, come il basolato, “usato nelle zone della città di Napoli che oggi non sarebbero utilizzabili”, per gli elementi moderni che non si potrebbero eliminare. Poi, l’aspetto “più importante di tutti, il Commissario. Non si può fare questa serie senza innamorarsi di lui: la cosa più complessa era entrare nel suo spirito, ma anche la più bella. E’ nato dalla fantasia dell’autore, ma anche vicino, un amico che mi ha preso per mano. La drammaturgia di De Giovanni mi ha avvantaggiato in questo”. In più, aggiunge, “era bello raccontare l’ingenuità di quell’epoca, che era l’ultima per l’Italia, perchè dopo la guerra abbiamo smesso di essere in quel modo. Nei romanzi si descrive una famiglia, un sapore che non c’è più”.
Ma l’aspetto che ritorna sempre, nelle parole del cast, è soprattutto Napoli, ulteriore protagonista della storia, di questo “viaggio fantastico – come lo definisce D’Alatri -: le musiche, le atmosfere, i linguaggi, la società trasversale. Solo a Napoli era possibile realizzare questo, grazie anche al grande patrimonio attoriale teatrale, alla drammaturgia teatrale napoletana”.
Ad entrare nel dettaglio del personaggio è Lino Guanciale, che racconta il suo approccio a Ricciardi: “prima del lavoro di ricerca, la mia fortuna è stata quella di avere un imprinting come lettore laico. Da lettore molto curioso e onnivoro non potevo non restare incuriosito, l’ho apprezzato e sono stato entusiasta. Questo imprinting è poi l’approccio che ho scelto di seguire. Potevo fare leva sugli elementi di fascinazione che avevano fatto leva su di me”. “E’ la storia di un grande flaneur – aggiunge – guarda a distanza, ma senza perdere alcun dettaglio: questo è quello che un attore deve acquisire, osservare gli altri, cercare di comprenderli, tutte cose che Ricciardi fa, l’imprinting è già insito nel personaggio. Il primo mattone è, comunque, la lettura del testo, quello che bisogna incarnare”.
Un altro aspetto che Guanciale individua è, poi, la “genuinità e semplicità con cui tutti i personaggi approcciano le loro relazioni, in un mondo che sta diventando complesso, ed in questo sono molto attuali”.
Facendo riferimento alla sua provenienza e formazione teatrale ed anche alla relazione tra Napoli ed il teatro, cui accennava D’Alatri, l’attore aggiunge: “Napoli è teatralità, c’è la tradizione più grande. Parlare di drammaturgia è parlare di sentimenti. Ambientata questa storia nella teatralità, racconta i sentimenti, i romanzi stessi giocano su questi sentimenti”.
“L’incontro con Alessandro D’Alatri – afferma ancora Guanciale – è avvenuto in un momento in cui avevo bisogno di una guida come lui, di un confronto; è capace, con pochissimi, aggiustamenti di prendere da te quello che è giusto: lo ringrazio, per questa capacità di crescita forte, un momento importante che spero venga colto”.
Sul protagonista, il regista aggiunge: “E’ un personaggio empatico con la sofferenza delle anime. Non ho avuto paura di utilizzare questa cosa, ma nella serie c’è anche l’aspetto di commedia. La complessità non era stabilire una linea stilistica, ce n’erano diverse”. E poi un elemento che ha molto incuriosito, il ricciolino sulla fronte che un po’ identifica Ricciardi: creare “il ricciolino, presente nei romanzi, è stata la cosa più complessa. Ricciardi è famoso non solo per il ricciolo, ma anche perchè non porta il cappello, come si usava al tempo. Il ricciolo, comunque, si ritrova in fumetti e altre immagini artistiche, è una cifra degli anni ’30”.
Spostandoci sul resto del cast, tanti sono i personaggi importanti che si muovono attorno al protagonista: oltre a Tata Rosa, interpretata da Nunzia Schiano, e l’anatomopatologo, impersonato da un altro grande attore che si muove tra teatro e tv, come Enrico Ianniello, un’altra figura fondamentale è quella del brigadiere Maione, il cui ruolo è ricoperto da Antonio Milo, volto conosciutissimo (tra l’altro, è stato tra i protagonisti di “Natale in casa Cupiello” per la regia di De Angelis, andata in onda su Raiuno). “Maione – spiega Milo – ha un grandissimo dolore, un vuoto, un lutto per la perdita del figlio e questo, ovviamente, lo lega a doppio filo con il commissario. Al di là del rapporto lavorativo, grazie a Ricciardi riesce a comprendere quel vuoto, forse a superarlo. La forza dei personaggi è l’empatia”.
E poi le due donne innamorate di Ricciardi: Livia, un soprano che si è ritirata dalle scene, ed Enrica, timida vicina di casa del commissario. La prima lascia la carriera, per dare spazio a quella del marito: “all’epoca – afferma Serena Iansiti, che la interpreta – era consueto nell’atteggiamento della donna, adesso la situazione è cambiata. Sicuramente se il personaggio fosse stato scritto oggi, non credo che avrebbe rinunciato alla propria carriera per seguire quest’uomo”. Le fa eco Maria Vera Ratti, che veste i panni di Enrica: “All’epoca ci si poteva aspettare che una donna rinunciasse, non ci si aspettava forse nemmeno che avesse una carriera. Enrica lavora, insegna, ma non so quanto venisse visto come una carriera: non ha dovuto fare particolari rinunce, ma l’avrebbe fatto”.
Infine, D’Alatri afferma di non aver avuto paura di girare l’ennesima fiction su indagini e commissari, “perchè è un detection completamente diverso da quelli di oggi”, basati su azione e tecnologia, essendo ambientato “nel mondo degli anni ’30, dove ci si basa sul fiuto del commissario”.