Da nord a sud, il cinema (anzi, più in generale, la produzione audiovisiva) dei Manetti Bros. mostra da sempre una visione molto precisa ed un legame molto stretto con i territori. Che non sono soltanto set, ma diventano protagonisti, strumenti del racconto, integrano la loro complessità a quella delle storie, si mostrano come mezzo per analizzare queste complessità, per esprimerle. Con lo sguardo, lo stile differente che contraddistingue la poetica dei Manetti: lo slow motion, la contaminazione di generi e di linguaggi, la modernità, il montaggio, sono elementi che consentono di leggere in maniera differente i luoghi, di guardarli sotto una luce nuova, di scoprirli o riscoprirli. Il territorio che non è qualcosa a sé stante, ma che ogni volta diventa un personaggio del film, secondo gli stessi registi.
Una visione che, nella carriera dei due fratelli, si è esplicata, come dicevamo, da nord a sud.

Quel sud che è al centro anche del nuovo film U.S. Palmese, attualmente nelle sale, e il nord protagonista – ad esempio – ne L’ispettore Coliandro. Nella serie tv, Bologna non è solo ambientazione, ma componente imprescindibile: in un poliziesco che si rivolge in particolare ad un pubblico giovane (in modo inedito per il periodo dell’esordio, ovvero il 2006), anche la città che ne è fulcro esprime un’atmosfera contemporanea. Pur nei toni grotteschi o surreali, propri del genere, Bologna diviene luogo fondamentale, che accarezza l’evolversi delle situazioni e la personalità – tra il saccente e lo sprovveduto – dell’ispettore, mentre sottolinea le atmosfere dark di alcuni episodi o il noir che attraversa tutta la serie, con un’attenzione alle periferie che (anche in questo caso tra le prime nella serialità italiana) assurgono ad elementi centrali. Già da Coliandro si intravedono le caratteristiche del racconto dei territori che è poi diventato proprio dei Manetti: una narrazione in cui, da una parte, i siti riflettono percorsi tra fumetto e sogno; dall’altra, uniscono realtà e atmosfere fiction, offrendo la verità di una rappresentazione che comprende tutte le sfaccettature, ma che nello stesso tempo rifugge gli stereotipi, li capovolge riproponendoli nella loro assurdità, per farne commedia o per mostrarne il contraltare. A partire proprio da colui che dei luoghi comuni è maestro: Coliandro se ne ciba, parla per frasi fatte, è pieno di pregiudizi, ma poi le sue azioni vanno, quasi senza che lui stesso se ne accorga, in un’altra direzione. L’opera degli autori mostra questi paradossi, questi dualismi, anche attraverso i territori e il loro racconto. E, si diceva, il loro stile contribuisce in maniera fondamentale a sottolineare questa direzione: la contemporaneità è la cifra distintiva, che fotografa una modernità, ma che sa anche cogliere con occhi differenti la tradizione e le contraddizioni.
Questo approccio, che fa dello stile Manetti un unicum, viene applicato dai registi dal nord al sud, come accennato: con il plus, per quanto riguarda il Mezzogiorno, di avere anche una funzione di scoperta, di svelamento di siti, storie e memorie, di superamento di luoghi comuni in una chiave ancor più complessa, che gioca con l’ironia nel sovvertimento degli stereotipi, creando ancora una volta dei “cortocircuiti” davvero interessanti, come nel caso di scuola di Ammore e malavita. Nell’incipit del film, affermano i Manetti (in un’intervista rilasciata a Rocco Moccagatta nel 2017 per FilmTv e citata nel libro “Terre promosse”, pubblicato da chi scrive nel 2020), c’è anche «lo sfottò a un certo cinema e a una certa tv, ormai eccessiva, dove Napoli è solo negatività e criminalità, e non se ne ricordano mai la bellezza, il calore, il sorriso delle persone. Sempre, però, senza lanciare ‘i messaggi’». Una descrizione di una complessità, attraverso il sarcasmo nei confronti di una visione mediatica, ma utilizzando quello stesso mezzo, ovvero l’audiovisivo, per mostrare altro. Così, il cinema, la serialità, diventano oggetto di ironia, e nello stesso tempo strumento per veicolare un’altra prospettiva, comunque lontana da ogni retorica o da ogni immagine edulcorata. Ammore e malavita – che arriva dopo un altro film ambientato a Napoli con lo stesso approccio, Song ‘e Napule – utilizza ancora di più questo registro, con uno sguardo che attraversa le sfaccettature, che consente di leggere le negatività con toni grotteschi, ma anche di sottolineare l’anima, la forza attrattiva, il legame inscindibile con una città, filmandola come raramente si è visto in passato. Un legame con i territori che i Manetti Bros. hanno ribadito (nella citata intervista), evidenziando la necessità di una narrazione che parta dai territori stessi. In passato, parlando degli esordienti che guardano a loro come modelli, hanno infatti dichiarato: «ci dispiace che cerchino spesso la confezione internazionale, all’americana, come se non credessero nelle ambientazioni e nelle storie italiane».

Territori da cui partire, anche come fonte di linguaggio cinematografico: l’esempio più recente di questa connessione è il già citato U.S. Palmese. Connessione che qui è ampliata dal luogo in cui si svolge la storia: Palmi, città natale della madre dei registi, terra cui sono particolarmente legati, con un attaccamento alle radici che si intreccia con quello alla squadra locale. Il calcio e il territorio si uniscono saldamente, come elementi metaforici di cambiamento: e ciò che connota il percorso differente dei Manetti è la diversa prospettiva del cambiamento, che caratterizza il luogo, non più soggetto di riscatto, bensì propulsore. Il territorio come riferimento, a cui tornare, a cui approdare per operare il cambiamento. E, dato ancora più interessante, un cambiamento che non nasce (o almeno solo in parte e in relazione con il resto) dalla fascinazione dei paesaggi, ma dall’essenza del vivere, dalla condivisione, dal lavoro di squadra, non solo in senso calcistico. Aspetti che costituiscono, secondo gli stessi autori, qualcosa di inesplorato: un desiderio di dare luce a ciò che è poco noto, senza dimenticare le diverse sfaccettature, ma guardandole, anche in questo caso, attraverso l’ironia. Questo permette di schivare la retorica, di far filtrare la bellezza dei siti dall’originalità di sguardo (e di ripresa) e di farla emergere anche dalla ritualità, dal ripetersi lento delle azioni, dalla normalità di un paese che invece diventa novità. La contemplazione di una semplicità, di una naturalezza di vita, come tocchi di illuminazione per chi è estraneo a quei luoghi, ma mai proposti, appunto, come messaggi, mai evidenziati in primo piano. Tutto è parte di una narrazione complessiva: la convivialità non esibita o folkloristica, la delicatezza e la naturalezza dell’inclusività, il modus vivendi permeato da una saggia comicità che affonda le radici nella cultura (e il personaggio del professore che parla per citazioni latine ne è una perfetta incarnazione). Elementi che concorrono alla creazione del percorso tracciato dai Manetti, divenendo assi portanti di un racconto che dal territorio parte, se ne smarca, lo osserva con affettuosa vicinanza e sarcasmo critico, ma mai eccedendo in un senso o nell’altro, per poi fotografarlo nella sua essenza. Al nord come al sud.