Quel cinema fatto di umanità, dell’avvicendarsi apparentemente casuale degli eventi, del reale che attraversa con naturalezza il surreale (o viceversa), della quotidianità in cui fa capolino l’eccezionalità, anche quella della felicità, in un mondo con le sue derive, ma che sa ancora offrire solidarietà, condivisione, anche e soprattutto nella terza età. Quel cinema in cui la parola semplicità non significa facilità, bensì costruzione complessa e originale di un universo dalla grande grazia stilistica e dall’altrettanto grande profondità: quel cinema che spesso in Italia viene evocato (o anche invocato), guardando a quanto accade in Francia, alle commedie sofisticate che pensiamo sia possibile realizzare solo oltralpe. E nel quale, invece, Gianni Di Gregorio, ancora una volta, riesce a trasportarci, nel suo mondo, quasi trasognato, benchè strettamente legato al quotidiano, che ne fa un unicum nel panorama italiano. Un cinema riconoscibile eppure ogni volta diverso; che sa guardare, raccontare personaggi non più giovanissimi ma con tutto un universo da esplorare, fatto di affetti e amicizie improvvise che puntellano insicurezze e risolvono i tanti non detti.
Questa volta, nel nuovo film “Astolfo”, presentato alla Festa del cinema di Roma e in uscita nelle sale il 20 ottobre, il personaggio di Di Gregorio si rapporta con l’amore in tarda età: strumento per comprendere e comprendersi, svolta di una vita ancora possibile, ancora da costruire. L’Astolfo del titolo è un professore in pensione, sfrattato dalla padrona di casa, la cui figlia sta per sposarsi e necessita dell’appartamento in cui il protagonista vive. Così, Astolfo decide di tornare in un paesino di provincia, dove possiede una parte della casa di famiglia: un’abitazione storica, ormai in disuso e in rovina, ma da tempo abitata abusivamente da un uomo, nonchè “preda”, insieme ai terreni, del parroco della vicina chiesa e del sindaco.
Da qui, una serie di eventi che, come accade spesso nelle opere del regista, si susseguono nella vita del protagonista come accadimenti imprevisti, fortuiti, lasciando quasi scivolare il destino (anche se qui gli amici fanno da sprone). Tra questi eventi, anche l’amore per una Stefania Sandrelli perfettamente calata nell’atmosfera sognante creata da Di Gregorio.
Ed è così che il regista costruisce, ancora una volta, un’opera delicata, ma profondamente ricca di toni lontani dal cinema cui siamo abituati: lontani nei ritmi, che sembrano assecondare la vita del paese, ma anche lontani dalla retorica; lontani dal didascalico, ma ricchi di un sarcasmo sotterraneo che non ha bisogno di essere espresso per essere colto; lontani da una sceneggiatura piana, scontata, ma che invece sembra costruirsi, anche in questo caso, come una naturale evoluzione del protagonista, con i suoi stessi tempi, dal suo stesso punto di vista.
Quella commedia che accarezza, che non nasconde la malinconia, ma la mitiga, o la risolve, nell’incontro con l’altro, nella progressiva scoperta di sè.
(Foto di Sara Petraglia)