Un viaggio nella storia del cinema, italiano ma anche internazionale, attraverso uno sguardo intenso, dolce e misterioso al tempo stesso. Lo sguardo di una donna che ha fatto quella storia: una donna che amava esprimere se stessa, che sin da giovane cercava la propria indipendenza, che appariva altera, algida, ma in realtà rifuggiva ogni divismo. Simpatica, umile, desiderosa di cercare nuove esperienze professionali, di crescita, come se fosse sempre un nuovo debutto. Ma anche una donna per cui “il lavoro è meraviglia”, ma la vera essenza, l’essenza della vita erano gli affetti, la famiglia, i figli, l’amore “che significa vivere”. Il tutto racchiuso sempre in quello sguardo che l’ha indentificata negli anni: perchè Alida Valli aveva un’aura, una presenza, per cui, come sottolinea Charlotte Rampling, “aveva il potere di ‘essere’ e basta”, come i veri attori, solo il suo apparire in scena creava qualcosa di unico, sintetizzato proprio nella magia di uno sguardo.
E oggi quell’aura, quella magia rivivono in un documentario, “Alida”, di Mimmo Verdesca, che – dopo essere stato presentato a Cannes e alla Festa del cinema di Roma nel 2020 – approda da lunedì 17 maggio nelle sale, in occasione del centenario della nascita della grande attrice.
Solo apparentemente il taglio documentaristico sembra classico, con interviste a chi ha conosciuto la Valli e il racconto della sua storia: la scelta di una narrazione fondata sui diari scritti dall’attrice nel corso della sua vita – i brani solo letti da Giovanna Mezzogiorno, il cui padre Vittorio lavorò con Alida Valli ne “La caduta degli angeli ribelli” – ci svela, infatti, aspetti inediti, attraverso una visione in prima persona che fa entrare appieno nei sentimenti, nel reale racconto di una donna prima che di una diva, quale peraltro non sentì mai di essere. E, in questa scoperta di Alida, prima che di “Valli” (come la chiamavano ad Hollywood), a guidare lo spettatore è il nipote, Pierpaolo De Mejo, figlio di Carlo, primogenito dell’attrice.
Pierpaolo tratteggia visivamente questo percorso, attraverso quei diari, ma anche attraverso le lettere, i biglietti, le foto che la nonna aveva conservato: un patrimonio di ricordi, non solo personali ma anche di un mondo, quello del cinema mondiale degli anni d’oro, che si schiude davanti agli occhi del pubblico, che può conoscerlo o riscoprirlo, assaporare le atmosfere creative di quel tempo, rivivere insieme alla protagonista incontri magici con intellettuali, registi tra i più famosi, da Hitchcock, che la lanciò in America con “Il caso Paradine”, ad Orson Welles, per “Il terzo uomo”, da Antonioni, che con “Il grido” aprì per lei una nuova direzione artistica (dopo il successo giovanile nei film dei “telefoni bianchi” e la svolta con “Piccolo Mondo Antico”), a Pasolini, da Vadim a Chabrol, da Marco Tullio Giordana a Margarethe von Trotta, a Bernardo Bertolucci, con cui si avvicinò ancora una volta ad una nuova visione, ad una nuova esperienza. Un desiderio di cambiare, di conoscere, di approcciarsi a nuovi linguaggi: qualcosa che ha sempre caratterizzato la sua carriera e che la porterà a lavorare, ad esempio, con Dario Argento o con Roberto Benigni in “Berlinguer ti voglio bene”. E, dunque, se tutti siamo legati alla sua straordinaria interpretazione in quel capolavoro che è “Senso”, a quel personaggio tratteggiato in maniera perfetta, proprio attraverso quello sguardo che sa descrivere amore, passione, gelosia, delusione e dolore, Alida in realtà è lontana dall’algida contessa e desiderosa di incontri artistici ed umani diversi, di fare squadra con gli artisti, di sentirsi parte di una famiglia cinematografica ma reale, come racconta lo stesso Benigni,
E proprio il racconto dei vari personaggi intervistati, compagni di lavoro che l’hanno conosciuta nel corso degli anni, delinea la donna, la sua semplicità, oltre che l’artista. Quell’artista che anche con una sola scena si impone in un film, lo delinea, lo rende unico. E’ presenza, icona, pur non volendo esserlo. Al cinema, in tv, ed anche in teatro, dove sceglie di approdare, anche in questo caso senza sedersi sugli allori, ma affidandosi pure a nuovi registi, come al cinema, mettendosi sempre in gioco (ed evidenziando quanto possa essere fonte creativa e motivo di stupore e arricchimento l’incontro, il confronto intellettuale ed artistico). Restando sempre se stessa, pur mutando: e soprattutto indipendente, come quando decise di abbandonare, al prezzo di una costosissima penale, quella Hollywood in cui tutto era controllato e deciso dagli altri. Anche questa è la sua unicità, quella che il pubblico ha sempre amato e che questo film, con le sue scelte stilistiche precise, restituisce con la ricchezza di contenuto: l’unicità di sguardo, quello dei suoi occhi e quello del suo modo di vedere, di approcciarsi all’arte.