
Un duello che è metafora di una ricerca, quella ricerca interiore, quella lotta fra anime interne che dura anche tutta la vita. Quella contrapposizione tra sentimenti, modi di essere ed intendere la vita, che è riflesso dell’umanità, dell’essere umano. “I duellanti” è tutto questo e anche tanto altro: lo è il testo di Conrad; lo è la versione cinematografica, esordio alla regia di Ridley Scott, magistralmente interpretato da Harvey Keitel e Keith Carradine; e lo è anche la prima riduzione teatrale mai realizzata, diretta da Roberto Aldorasi e Alessio Boni, anche interprete insieme a Marcello Prayer (autori pure della drammaturgia con Aldorasi e Francesco Niccolini). Uno spettacolo – andato in scena al “Cilea” di Reggio Calabria, nell’ambito della rassegna “Le maschere e i volti” – che affascina, trasportando lo spettatore, pian piano, in una storia nata da un banale screzio e che sfocia in una contesa perenne, in un lungo duello che si protrae per decenni. Protagonisti due ufficiali dell’esercito napoleonico, che per vent’anni si combattono, si fronteggiano, tra spade e pistole. Così passa il tempo e si perpetua l’opposizione tra i due: uno, Feraud, che odia i damerini, l’altro, D’Hubert, elegante e raffinato; uno resterà fedele all’imperatore, al rientro dall’esilio, l’altro “sempre più disincantato dalle imprese e dalle disfatte napoleoniche”. Ma il combattimento che mettono in atto non è in realtà l’uno contro l’altro, ma è, appunto, il combattimento dell’uomo contro se stesso, il contrasto interiore e quello con la società che gli sta attorno: “le guerre non possono durare per sempre”, afferma D’Hubert, convinto che i conflitti troveranno una soluzione. Eppure quel conflitto si protrae prima di sfociare davvero in una soluzione che apra il cuore del singolo uomo: perchè, nel tempo, “la coscienza finisce laddove inizia il vantaggio” ed è questo, tra gli altri, uno degli elementi con cui si scontra l’uomo.
Dialoghi intensi, un testo metaforico e denso di significato, ben studiato per arrivare ad una trasposizione teatrale che punta alla sottolineatura di questi passaggi, anche attraverso una rappresentazione che sfrutta il dinamismo scenico, che offre innovazioni visive (come il duello che diviene quasi un susseguirsi di cinematografici “fermo immagine”, o il finale che rivisita le prospettive per dare un senso di straniamento e di ricerca interiore ancora maggiore), e che soprattutto si fonda su straordinarie prove d’attore: quella di Alessio Boni, calato pienamente nella trasposizione scenica, che dà vita al personaggio di D’Hubert, alternando forza, fierezza ed umanità; e quella di Marcello Prayer, che oppone, con padronanza della scena, un Fereaud di grande intensità. Un crescendo di sfide, di percorsi dentro se stessi, tra scelte sceniche e sapiente uso delle luci, che danno ritmo alla versione teatrale del romanzo.
Una versione non facile da realizzare, frutto di grande studio, come ci conferma, in un’intervista, prima dello spettacolo, lo stesso Alessio Boni, cui chiediamo anche come vede questo stretto rapporto che oggi si sta creando tra teatro e cinema e cosa tutto ciò possa apportare in più al teatro stesso: “Cinema e teatro sono due aspetti legati come l’elica del dna. Quando c’è una bella storia è inevitabile che le si avvicinino registi, sceneggiatori, drammaturghi. Ridley Scott ha tratto nel ’77 il suo primo film da questa opera, un capolavoro, qualcosa di meraviglioso, per le atmosfere che ha creato – incredibili -, con interpreti strepitosi. Davanti a quel film lì ci siamo fermati un po’ tutti…anche perchè è difficile portare in teatro 600mila soldati che combattono contro altri 600mila soldati, la cavalleria, ecc.! Allora ci siamo confrontati, io e Marcello Prayer, e abbiamo pensato: che cosa è la cosa più forte che ha l’essere umano, con tutte le problematiche, con tutte le spade di Damocle, le situazioni difficili? I sogni e l’immaginazione, non te li ruberà mai nessuno. Allora cerchiamo di far partire l’immaginario del pubblico, ma siete voi che andate nei mondi che creiamo, non vi facciamo vedere niente se non con le parole. La parola è questo tramite. La cosa difficile che veramente abbiamo trovato è che un romanzo scritto benissimo, con delle frasi strepitose, poi magari in scena rimbalza, non funziona, diventa ridondante, diventa letterario. Allora, abbiamo studiato, letto tutto Conrad, abbiamo messo altri passi di Conrad, qualcosa si è inventato Niccolini, che si è messo a scartabellare la storia della ritirata di Russia…la cosa bella è che te lo crei tu, non c’è un testo fatto”.
Ma come è nata l’idea di portare in teatro “I duellanti”? “Innanzitutto – afferma Boni – amo i romanzi che ti stravolgono l’anima, Dostoevskij, Shakespeare, Molière, Conrad, dai tempi di “Linea d’ombra” e “Cuore di tenebra”. E questo romanzo molto piccolo, probabilmente tratto da uno spunto reale, mi ha colpito perchè innanzitutto non parla di mare, è una cosa completamente diversa dagli altri romanzi di Conrad: parla dell’uomo, parla veramente dell’uomo. E’ la metafora della vita, ci mettiamo in competizione con noi stessi, con il nostro alter ego, con il nostro minotauro che è dentro di noi”.
Da qui l’idea della trasposizione, che mira a creare un’energia che poi si trasferisce al pubblico: “Tutte le sere andiamo in scena e non sappiamo come va a finire. L’unico motivo per cui vado a teatro è trovare l ‘energia in scena: il teatro per me è energia totale”.