Raccontare i luoghi, raccontare una regione, la Calabria, nella sua complessità, con una visione cinematografica precisa, con un linguaggio visivo che gioca su luci e ombre, che guarda all’arte, citandola, al teatro, alla letteratura, unendole, mescolandole ad un reale che c’è, ma senza l’aspetto documentaristico. L’arte come mediazione, la bellezza come strumento per trasfigurare la realtà, tra il sogno, la metafora, la filosofia, il ricordo, l’immagine mai fine a se stessa. Una linea narrativa inedita, originale, propria, che guarda al contemporaneo con la consapevolezza del passato, per creare un film che è certamente un unicum, anche per la sua creazione: “Il mare nascosto”, primo lungometraggio di Luca Calvetta, è interamente autoprodotto, a bassissimo costo, senza sostegni, così come il suo precedente documentario, il mediometraggio “Il paese interiore”, distribuito liberamente sul web e visto, tra online e proiezioni pubbliche, da quasi 30mila spettatori. “Il mare nascosto “ è un film totalmente indipendente che debutterà il 29 giugno, nella serata di apertura dell’Ischia Film Festival, dedicato al rapporto tra cinema e territorio.
“Quello che volevo fare, sia con il precedente documentario che con il film, è un racconto per quanto possibile onesto della Calabria: non volevo che fosse né il solito film di denuncia, né il racconto apologetico, tra meraviglia e cartoline. L’idea era raccontare tutto, bellezza e ferite, ma volevo che anche nelle ferite fosse compassionevole, ovvero che ci fosse condivisione, di luoghi, storie, volti, e questo è anche un modo di raccontare, onesto e non giudicante a priori”. La visione di Luca Calvetta, autore cosmopolita, con una formazione internazionale che spazia dalle Scienze politiche alla comunicazione culturale, affonda sicuramente nelle radici familiari, nella Calabria che è al centro dei suoi film, e nelle teorie dell’antropologo Vito Teti, da cui prendeva spunto “Il paese interiore”, ma gli echi proustiani, della “Recherche”, della letteratura, attingendo da Pasolini Gary, Darwish, non possono non emergere. Una visione sociale, politica e artistica che si sintetizza nel racconto di un territorio, ma soprattutto dell’umano, del superamento dei confini, nel senso più ampio e generale.
Da qui, l’idea di un film che idealmente si raccorda al precedente, già dalle prime immagini; che sviluppa quei concetti, in una forma narrativa, pur se, come detto, attraverso un linguaggio che supera – anche in questo caso – i confini del racconto tradizionale. E a rendere concreto questo sogno contribuisce l’interpretazione di Ascanio Celestini, che porta in scena il suo teatro di narrazione, ma è anche protagonista del racconto stesso, è voce che unisce terre, destini, immagini, come se fosse una favola. “Ma questa non è una favola…o forse sì”, ripete su un palcoscenico reale e immaginario al tempo stesso, con la reiterazione delle frasi, che è uno degli strumenti drammaturgico-linguistici usato spesso proprio nel teatro di narrazione. “Ascanio – ci racconta l’autore – l’ho conosciuto quando lavoravo in tv (Calvetta ha curato per 7 anni la parte culturale e di approfondimento della trasmissione DiMartedì, di Giovanni Floris, e ha collaborato con la Rai in occasione di quattro edizioni della cerimonia del Premio Campiello, ndr.), mi fu presentato da Michela Murgia, che non finirò mai di omaggiare, le sono debitore anche di questo. Ho sempre ammirato e seguito la sua produzione teatrale e non solo, e ho trovato in lui una maniera di fare arte che è allo stesso tempo poetica e politica. Inoltre, è una persona molto generosa: il fatto che sia venuto in Calabria ad interpretare il protagonista di un film di uno “sconosciuto” è qualcosa di incredibile e di cui non gli sarò mai abbastanza grato”. E, accanto a Celestini, alcuni dei più talentuosi attori calabresi, a partire Anna Maria De Luca, che regala un monologo di grande intensità ed emozione, in cui è centrale il confronto tra il restare e il lasciare la propria terra; e poi Marco Leonardi, interprete di un altro monologo in cui il territorio diviene fortissima metafora di vita; Carlo Gallo, Carmelo Giordano. E ancora, Nadia Kibout (già nel cast de “L’afide e la formica”), lo scrittore Gioacchino Criaco, il rapper Kento, il giovane poeta Mohamed Amine Bour e Josephine Faraci. Un cast che dà vita a quella che parte come una rilettura de “Il piccolo principe”, spunto ideale per la sceneggiatura creata da Calvetta, che ha curato anche il montaggio insieme a Massimiliano Curcio, autore anche della fotografia e delle riprese, che costruiscono un linguaggio visivo, come si diceva, intenso ed originale. Al centro del film, il percorso di un giovane venuto da lontano, proprio come il protagonista del libro: ed attraverso il suo viaggio ed il suo sguardo, si scopre quello dell’umanità, il viaggio interiore dell’uomo, oltre ad un territorio, un sud che diviene metafora universale. A fare da set, ma, in realtà, come si diceva, a fare da co-protagoniste, varie località della Calabria (tra le province di Vibo, Reggio e Catanzaro), come Badolato, Serra San Bruno, Soverato, Gioia Tauro, la stessa Reggio, Palizzi, Capo Spartivento con il suo faro, Roghudi vecchia, Lamezia.
L’idea del film, afferma l’autore, “nasce soprattutto da un desiderio di raccontare luoghi, da un percorso di ricerca. Nella lettura che offro, c’è una riscrittura forte della favola, con “Il piccolo principe” volevo trovare un pretesto narrativo che permettesse di essere nomadi, di incontrare molti luoghi, anche fisicamente: abbiamo percorso qualcosa come 30mila km in Calabria. Il film nasce da una prospettiva artistica e filosofica, ma anche dall’esperienza de “Il paese interiore”, che era stato un racconto dei luoghi, attraverso la visione dell’antropologia di Teti: quando ho percorso quei luoghi, scoprendo e riscoprendo parte delle mie radici, ho sentito il desiderio di raccontarli in una forma più strutturata, che toccasse dimensioni più ampie di quelle del documentario. Da qui, l’aspetto di finzione, di immaginazione, onirico, fantastico, di pura invenzione artistica”. “Ho voluto – spiega Calvetta – che la mediazione artistica fosse sempre visibile, alcune inquadrature sono veri quadri, citazioni, non solo creati per gusto estetico, ma anche perchè volevo che la mediazione fosse sempre presente, per non cadere nella “pornografia della realtà e del dolore” come fa qualche film. Per me era importante che fosse sempre chiaro che siamo nell’arte, che denuncia anche, che tocca dei problemi, che vuole rappresentarli, ma che non finge di essere realtà”.
Nel film, infatti, si intersecano vari piani, artistici e di racconto. “Questa è una scelta che vuol dire una cosa precisa – aggiunge -: la realtà umana è multidimensionale, è fatta della realtà, ma anche da quello che desideriamo, che sentiamo, da ciò che creiamo attraverso l’arte. Sembra forse eccessivo se cito Proust, ma “Alla ricerca del tempo perduto” dice proprio questo: la vita veramente vissuta è quella che passa attraverso la scrittura. L’idea è di non rinchiudere le vite delle persone in un’unica dimensione, come dicono nei film alcuni personaggi, quando affermano che siamo tutti stranieri”.
Dunque, un’unione di aspetti diversi, come il teatro: e l’autore tiene a sottolineare proprio la frase che pronuncia Ascanio Celestini, ovvero “Dove finisce il mio teatro inizia forse il mare e il mare non finisce”, un segno di “continuità tra il dentro del teatro e di tutti i meccanismi narrativi e l’esterno. Il palcoscenico è il mondo intero. L’idea è che ci sia continuità tra interno ed esterno”.
E tutto questo si lega ad un aspetto che caratterizza sia “Il paese interiore” che “Il mare nascosto”: l’idea di spostamento, di appartenenza multipla, e poi il “restare e partire” mutuato dall’opera di Vito Teti, che “interessava anche me ed è un modo di raccontare le cose, essendo parzialmente interni ed esterni ad esse”, evidenzia Calvetta. Condividere e guardare da lontano, dunque, come strumenti che si integrano per raccontare il territorio. Una visione universale, anche se “in parte una certa lettura del “Piccolo principe” può applicarsi alla Calabria: una storia di un bambino che non riesce a crescere, a diventare adulto, ad esprimere tutte le sue potenzialità. La Calabria è, in parte, anche questo: un luogo che ha una grandissima energia, poesia e potenzialità ed è sempre sull’orlo della nascita, senza nascere ancora, e questo è un peccato”. Ma soprattutto, come si diceva all’inizio, un racconto onesto della regione: “non è il solito film-doc sulla ‘ndrangheta, che è quasi esclusiva narrazione”, ma un racconto complesso e complessivo di un territorio, proprio all’insegna della condivisione, come forma di narrazione, di arte che si fa metafora e, soprattutto, che diviene universale.