C’è chi usa il bianco e nero, la prospettiva, le scenografie, la costruzione visiva, come mero esercizio di stile, staccandoli dal contenuto; e c’è chi ne fa linguaggio, chi crea attraverso lo stile, utilizza il bianco e nero e vira al colore come strumento di racconto, come un naturale passaggio tra la storia del narratore e la narrazione cui lui ha dato vita, come se sorgesse dalle sue ceneri. E’ la sapienza dell’autore, quella che riesce a sintetizzare in un film tutto ciò che la cinematografia è stata ed è: c’è il bianco e nero, appunto, che tratteggia la storia, la costruisce, la sottolinea (ed uno straordinario Fabrizio Ferracane ne diviene parte integrante, come se vivesse attraverso l’immagine e, viceversa, come se l’immagine si integrasse alla perfezione con la sua figura e con l’essenza del suo personaggio); c’è il citato passaggio dal bianco e nero al colore, come in un passaggio di consegne (che è poi alla base dell’intero film, un passaggio dall’autore alla sua creatura); c’è il rimando – reale, ovvero attraverso l’uso di immagini tratte da film, ed evocato – al neorealismo e, di conseguenza, al dopoguerra, alla storia di un Paese che cerca di tornare a sè, di ricostruire se stesso (e le scene in treno ne sono metafora); c’è, soprattutto, il rapporto strettissimo tra rappresentazione e realtà, tra vita e messinscena, che si intersecano e si disvelano, sancite dalla frase finale e da quel soffitto del teatro che apre e chiude, insieme all’applauso del pubblico, il film.
C’è tutto questo in “Leonora addio”, che Paolo Taviani ha presentato al Festival di Berlino e che sarà nelle sale dal 17 febbraio; e c’è proprio tutta la cinematografia dei fratelli Taviani, tutto ciò che il cinema ha significato per i due grande autori, la storia del cinema, la sua essenza, che si confronta con il teatro – come spesso è accaduto nella produzione dei Taviani. In questo caso, poi, è il racconto stesso ad intrecciarsi con questi temi: la prima parte del film è, infatti, incentrata sulla rocambolesca vicenda del trasporto delle ceneri di Pirandello in Sicilia, che si dipana tra drammaticità e toni grotteschi, mentre la seconda trae ispirazione da una novella dello stesso Pirandello, “Il chiodo”, scritta poco prima della sua scomparsa. E’, come sottolinea lo stesso regista, un passaggio di consegne ideale tra l’autore e la sua opera, tra realtà e finzione, il fulcro del pensiero pirandelliano. Realismo e rappresentazione: il rapporto, tra connubio, confronto e dicotomia, alla base anche del cinema e del teatro. Ed è l’essenza di queste arti, l’essenza del lavoro dei fratelli Taviani, che va in scena in “Leonora addio”, con il tocco dell’autorialità.