Se la storia descritta trascende spazio e tempo, diventando paradigmatica di un vissuto che accomuna tante donne, nelle loro solitudini; se il teatro di narrazione non si ferma al racconto, ma è teatro, è coinvolgimento, parla con gli occhi, con la fisicità dell’attore; se il linguaggio, pur essendo dialettale, anzi, proprio attraverso il dialetto, valica i confini di ogni idioma, diventando musicalità universale che delinea il racconto stesso, che lo indirizza con le sue cadenze, i suoi toni differenti, verso l’ironia, l’umorismo, il dolore e la tragicità; ebbene, se uno spettacolo riesce ad essere tutto questo, come “La Borto”, portato in scena da Saverio La Ruina, di Scena Verticale (presentato a Reggio, nell’ambito della rassegna organizzata da Spazioteatro), il teatro dimostra di sapere ancora essere quell’arte unica che emoziona, che supera confini, anche quelli tra attore e spettatore, che mostra la sua essenza tra riflessione, riso e pianto.
Ancora una volta, dopo quel “Dissonorata” che ha fatto conoscere in tutta Italia il talento di La Ruina, l’attore e autore descrive con grande sensibilità il mondo femminile, portando in scena la storia di una donna di un paesino del sud, ma che riflette le solitudini, le amarezze, ed anche la forza, la tenacia proprie forse di ogni donna. Ed ecco che l’aborto del titolo è una delle situazioni difficili che la protagonista si trova ad affrontare, ma non la sola: è uno dei “cunti” che Vittoria fa ad un Cristo sognato, ma presente, uno dei passaggi di una vita amara, priva di quella compassione che lei riesce a vedere solo nel viso di Gesù. Non in quello degli uomini che, davanti ai bar, fanno la radiografia scrutandoti. Sguardi che vedrà distruggere, durante il suo ingresso in chiesa, anche l’uomo che la sua famiglia le impone come sposo. Ed allora, negli occhi del suo promesso, scorgerà – nonostante la mostruosità del volto – la sua stessa sofferenza ed una dolcezza mai vista. Dolcezza che però, durerà poco. Perché anche lo sposo muterà, per difendersi dagli altri. E in lui non troverà più quella compassione. Quella che sembra animare le donne del paese, in una solidarietà femminile che diventa ricerca di un appiglio, di fede, ma anche rabbia, ingegno. E ironia, quella sottile, che riesce, seppur per frammenti, a far superare i momenti duri. E poi la forza, la caparbietà, il difendere la vita. Alla ricerca di un momento di compassione che non arriva: nè da chi è vicino, ma nemmeno al nord, dove la nipote di Vittoria va ad abortire. Ma l’aborto è un momento, si diceva: un momento paradigmatico di solitudine. Di dolore. Di una vita trascorsa nella difficoltà, a cercare la bellezza nelle piccole cose, in momenti quasi sognati, a lottare le ipocrisie, a tirare fuori la forza davanti agli “arrangiati” pronunciati dagli uomini.
Una storia, sentimenti, che La Ruina non racconta semplicemente: trasporta lo spettatore, lo coinvolge con quel linguaggio che diventa musicalità, fondendosi con le note prodotte in scena da Gianfranco De Franco; lo trasporta attraverso sentimenti, oltre che storie, attraverso immagini che le storie riescono a creare; lo trasporta grazie ad una interpretazione reale, intensa, che riflette condizioni, stati d’animo mai artificiosi, trovando una grande misura che trasmette verità. E alla fine, quando il dolore ed il racconto sfumano nelle note de “Gli uomini non cambiano” di Mia Martini, la sensazione che si prova è quella di un teatro che sa ancora essere vivo.