Una grande passione per l’arte e per la cultura, che si esplica attraverso la poesia, ma anche la pittura; una grande voglia di esprimersi attraverso l’arte a 360 gradi, di essere ancora naturalmente controcorrente, naturalmente coerente con il suo modo di vedere la vita e il mondo. Coerente con la propria visione di cultura, che per lui resta quella classica, quella greca, che affonda le sue radici anche in Calabria. E ne parla proprio in riva allo Stretto, Lawrence Ferlinghetti, giunto a Reggio per presentare la mostra che ripercorre i suoi 60 anni di attività artistica, e che si potrà visitare – dopo la tappa romana – presso il foyer del teatro Cilea, dal 5 maggio al primo luglio.
Un evento la sua presenza, sempre carismatica, che riporta a quegli anni della Beat generation, di cui fu uno dei protagonisti, ma che riflette ancora, come si diceva, soprattutto una grande forza artistica e culturale. Una forza che già conduce a nuovi progetti: come quello, annunciato proprio durante la conferenza stampa di presentazione della mostra, di realizzare 24 grandi tavole che raffigurino il XII canto dell’Odissea, ovvero il passaggio di Ulisse nello Stretto, unite a poesie e a brani della stessa Odissea. Un progetto subito sposato dal Comune di Reggio e di cui sono state fornite delle piccole anticipazioni, degli “schizzi”: e allora ecco il vento, ed ecco Ulisse.
Immagini che riflettono il suo stile pittorico, quello rappresentato dalle 54 tele in mostra: la contemporaneità, l’approccio a temi sociali e civili, il tratto deciso e coinvolgente. “Tutto ciò che volevo fare era dipingere sui muri della vita”: le parole dello stesso Ferlinghetti definiscono la sua opera, ma soprattutto il suo spirito. “L’occhio vagabondo è la chiave di lettura più importante della sua attività”: così Giada Diano, responsabile dell’associazione Angoli Cosari, che ha promosso la mostra, ed autrice dell’unica biografia autorizzata di Ferlinghetti, “Io sono come Omero”, introduce questo evento (“E’ stato proprio lui a voler tornare ad esporre, dopo 15 anni, nella terra del padre mai conosciuto”) ed anche l’intervento dello stesso artista.
Alla domanda su cosa resta della Beat generation, prima risponde “la maggior parte dei beat sono morti”, poi, su quanto rimane dello spirito beat, dichiara: “lo spirito ribelle è ancora vivo, l’unica voce ribelle è quella della tradizione beat”. E, a proposito degli Stati Uniti, alla domanda se siano una nazione in declino, risponde semplicemente “sì”. Successivamente afferma inoltre: “ho partecipato ad un programma tv e mi hanno chiesto come mi sentivo ad essere parte della cultura dominante. Dunque, c’è la sensazione che il sistema dominante, il sistema commerciale prevalgano sul resto. La cultura dominante sembra essere, ma non è quella più importante. La cultura classica è quella che bisogna recuperare”.
Quella cultura che, ripete, appartiene non solo agli artisti, ma a tutti. Quella cultura che si fonda sull’arte. Quell’arte che passa anche dalle immagini che, sostiene, “valgono un migliaio di parole. Hanno un linguaggio universale, che non ha bisogno di essere tradotto”.