“The tragedy of Macbeth”: l’estetica come potente strumento narrativo
E’ ormai una tendenza diffusa nella cinematografia, in questi ultimi anni, quella della sottolineatura, della prevalenza dell’estetica, spesso fine a se stessa: ma quando riesce a diventare strumento di narrazione, linguaggio, ad essere parte fondante degli snodi del racconto, a tradurre i sentimenti, ad introdurre lo spettatore nel cuore e nelle motivazioni di un percorso – della storia o dei personaggi -, allora l’estetica diventa elemento chiave del film e non esercizio di stile. E’ la costruzione scenografica, sono i chiarori e le ombre, il bianco e nero con cui Joel Coen riesce a tradurre il dramma, il dolore e il tormento di “The tragedy of Macbeth” (dal 14 gennaio su Apple Tv+).
C’è il teatro, del testo da cui è tratto; ma ci sono anche tanti rimandi iconografici: dall’arte figurativa, con lo smarrimento dell’uomo reso su tela da De Chirico, a molti echi del cinema di Dreyer, Bergman, Welles, per alcuni aspetti pure Kubrick.
Ovvero, l’immagine che racconta, che ci restituisce il senso dell’opera shakespeariana, facendo entrare lo spettatore nella lotta per il potere che si lega all’angoscia interiore e ai tormenti dei protagonisti: una sempre grande Frances McDormand e uno straordinario Denzel Washington, che per questo ruolo si prepara, con tutta probabilità, alla corsa all’Oscar. Ma è l’intero cast a “parlare” insieme all’estetica, a fare del racconto un’opera di indagine, di scavo dell’umano, tra metafora del reale, immaginario, toni gotici, che rendono questo film sicuramente un unicum nel panorama attuale: e, dunque, accanto ai già citati interpreti, da sottolineare anche la prova – nel ruolo di Re Duncan – di Brendan Gleeson, che si conferma uno dei maggiori interpreti del cinema mondiale.
Coen, dunque, riesce in un’impresa non facile: costruire con la sapienza teatrale, fare dell’immagine strumento di piena traduzione narrativa e restituire nella sua metaforicità e universalità un racconto che, come sempre nell’opera del Bardo, riflette l’uomo in tutte le sue sfaccettature, e nelle sue – questa volta sempre più visibili – ombre e nebbie.